“Accarezzami amore” di Alda Merini

Accarezzami, amore,
ma come il sole
che tocca la dolce fronte della luna.
Non venirmi a molestare anche tu
con quelle sciocche ricerche
sulle tracce del divino.
Dio arriverà all’alba
se io sarò tra le tue braccia.

Alda Merini, poetessa, nata a Milano nel 1931, morta a Milano il 1° novembre 2009

le bellissime: “Dissipa tu, se puoi” di Amelia Rosselli

Dissipa tu, se tu puoi, se tu sai, se ne hai il tempo
e la voglia, se è il caso, se è possibile, se
non debolmente ti lagni, questa mia vita che
non si lagna. Dissipa tu la montagna che m’impedisce
di vederti o di avanzare; nulla si può dissipare
che già non si sia sfiaccato. Dissipa tu se tu
vuoi questa mia debole vita che s’incanta ad
ogni passaggio di debole bellezza; dissipa tu
se tu vuoi questo mio incantarsi, – dissipa tu
se tu vuoi la mia eterna ricerca del bello e
del buono e dei parassiti. Dissipa tu se tu puoi
la mia fanciullaggine; dissipa tu se tu vuoi,
o puoi, il mio incanto di te, che non è finito:
il mio sogno di te che tu devi per forza assecondare,
per diminuire. Dissipa se tu puoi la forza che
mi congiunge a te: dissipa l’orrore che mi ritorna
a te.

(A. Rosselli, La libellula)

Muore ignominiosamente di Mario Luzi

Muore ignominiosamente la repubblica.

Ignominiosamente la spiano

i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti.

Arrotano ignominiosamente il becco i corvi nella stanza accanto.

Ignominiosamente si azzuffano i suoi orfani,

si sbranano ignominiosamente tra di loro i suoi sciacalli.

Tutto accade ignominiosamente, tutto

meno la morte medesima − cerco di farmi intendere

dinanzi a non so che tribunale

di che sognata equità. E l’udienza è tolta.

 

(Mario Luzi, da Al fuoco della controversia)

Salmo di Paul Celan

 

Nessuno c’impasta di nuovo, da terra e fango,
nessuno insuffla la vita alla nostra polvere.
Nessuno.

Che tu sia lodato, Nessuno.
E’ per amor tuo
che vogliamo fiorire.
Incontro a
te.

Noi un Nulla
fummo, siamo, reste-
remo, fiorendo:
la rosa del Nulla,
la rosa di Nessuno.

Con
lo stimma anima-chiara,
lo stame ciel-deserto,
la corona rossa
per la parola di porpora
che noi cantammo al di sopra,
ben al di sopra
della spina.

Le foglie cadono di Rainer Maria Rilke

Le foglie cadono, cadono lontano
quasi giardini remoti sfiorissero nei cieli;
con un gesto che nega cadono le foglie.

E ogni notte pesante cade la terra
dagli astri nella solitudine.

Tutti cadiamo. Cade questa mano
e così ogni altra mano che tu vedi.

Ma tutte queste cose che cadono, Qualcuno
con dolcezza infinita le tiene nella mano.

La partenza di Franco Fortini

Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.
Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.

Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.

“Sparisce sott’acqua una folaga” di Ermanno Krumm

Sparisce sott’acqua una folaga,
nuovi scogli affiorano con la bassa marea
e file di formiche continuano
il loro lavoro: passano i secoli
e sono sempre le stesse montagne
a gonfiarsi in oscurità e luce:
così deve averle viste
all’orizzonte tra le pareti del mare
scorgendole Ulisse, così ancora
nello spessore d’aria crepitando
stirano quella loro carcassa
di tufo color sassi e seppia.

[da Respiro, 2005 – Ermanno Krumm]

“Ho pena delle stelle” di Fernando Pessoa

Ho pena delle stelle
che brillano da tanto tempo,
da tanto tempo…
Ho pena delle stelle.

Non ci sarà una stanchezza
delle cose,
di tutte le cose,
come delle gambe o di un braccio?

Una stanchezza di esistere,
di essere,
l’essere triste lume o un sorriso…
Non ci sarà dunque,
per le cose che sono,
non la morte, bensì
un’altra specie di fine,
o una grande ragione:
qualcosa così,
come un perdono?

Fernando Pessoa

Da Una sola moltitudine, volume I (a cura di Antonio Tabucchi), Adelphi, Milano 1995.

“Gesto” di Bartolo Cattafi

Non è vero che non successe nulla

quando tirasti fuori la mano dalla tasca

e a braccio teso tagliasti l’aria

da sinistra a destra

dall’alto verso il basso

successe che a braccio teso tagliasti l’aria

e ciò ebbe il suo peso

l’aria non è più come prima

è tagliata.

Bartolo Cattafi, poeta, Barcellona Pozzo di Gotto 1922 – Milano 1979

Traducendo Brecht di Franco Fortini

Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.

Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

Franco Fortini, poeta, critico, saggista, nato a Firenze nel 1917, morto a Milano nel 1994

Parla anche tu di Paul Celan

Parla anche tu,
parla per ultimo,
dai voce alla tua parola.

Parla
ma non separare il No dal Sì.
Dai alla tua parola anche il senso:
dalle l’ombra.

Dalle ombra a sufficienza,
dagliene tanta,
fino a saperla attorno a te divisa
tra mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte.

Guardati intorno:
vedi come ovunque tutto è vivo
Vicino alla morte, eppure vivo!
Dice la verità, chi dice ombra.

Ma ora si restringe il luogo dove stai:
in quale posto andrai, spogliato delle ombre, dove?
Sali. Tenditi verso l’alto come puoi.
Più esile diventerai, irriconoscibile, più sottile!
Più sottile: un filamento,
lungo il quale cerca di calarsi nell’abisso, la stella:
per nuotare laggiù, proprio laggiù,
dove si guarda splendere: nella risacca
di parole erranti.

(Paul Celan, Di soglia in soglia, 1955)

“The snow man” di Wallace Stevens

The snow man                                                                            L’uomo di neve

One must have a mind of winter
To regard the frost and the boughs
Of the pine-trees crusted with snow;And have been cold a long time
To behold the junipers shagged with ice,
The spruces rough in the distant glitterOf the January sun; and not to think
Of any misery in the sound of the wind,
In the sound of a few leaves,

Which is the sound of the land
Full of the same wind
That is blowing in the same bare place

For the listener, who listens in the snow,
And, nothing himself, beholds
Nothing that is not there and the nothing that is.

 

Wallace Stevens

 

Bisogna avere una mente d’inverno
per stare a guardare il gelo e i rami
dei pini incrostati di neve;E aver avuto freddo per tanto tempo
per vedere i ginepri intricati di ghiaccio,
gli abeti rugosi nel luccicare lontanodel sole di gennaio; e non pensare
al gemito  ch’è nel suono del vento
nel  suono di poche foglie

che è il suono della terra
piena dello stesso vento
che soffia nello stesso luogo vuoto

per chi ascolta e nella neve sente,
d’essere egli stesso niente, vedendo
il nulla che c’è e il nulla che non c’è.

Trad.   di Loredana Semantica

qui , su La dimora del tempo sospeso una traduzione e commento di Gianluca D’Andrea

a seguire nell’ordine  le traduzioni di: Renato Poggioli, Nadia Fusini, Massimo Bacigalupo, Lisa Sammarco citate nei commenti al post da Francesco Marotta

Si deve avere un animo d’inverno
Per contemplare questo gelo e i pini
Con le rame incrostate dalla neve;
E avere avuto freddo lungo tempo
Per guardare i ginepri irti di ghiaccio
I rudi abeti nel brillìo remoto
Del sole di gennaio; e non pensare
D’alcun duolo nel gemito del vento,
O nel suono di queste poche foglie,
Voci di una regione visitata
Da quel vento che sempre
Sibila sullo stesso nudo luogo
Per chi ascolta, chi ascolta nel nevaio,
E nulla in sé medesimo, contempla
Là quel nulla che è e che non è.
(Renato Poggioli, 1954)
*
Bisogna avere una mente d’inverno
per osservare il gelo e i rami
dei pini incrostati di neve;
e avere patito tanto freddo
per guardare i ginepri ricoperti di ghiaccio,
gli abeti ruvidi nel distante riflesso
del sole di gennaio; e non pensare
alla miseria che risuona nel vento,
tra le rade foglie,
il medesimo suono della terra
attraversata dal medesimo vento
che soffia nello stesso spazio spoglio
per chi in ascolto, ascolta nella neve,
e lui stesso un nulla, guarda
il Nulla che non c’è e il nulla che c’è.
(Nadia Fusini, 1985)
*
Si deve avere una mente d’inverno
per guardare il gelo e i rami
dei pini incrostati di neve,
e avere avuto freddo a lungo
per vedere i ginepri irti di ghiaccio,
gli abeti ruvidi nel chiarore lontano
del sole di gennaio, e non pensare
a un dolore nel suono del vento,
nel suono di poche foglie,
che è il suono della terra
percorsa dallo stesso vento
che soffia nello stesso nudo luogo
per l’ascoltatore, che ascolta nella neve
e, nulla in sé, vede
nulla che non sia lì, e il nulla che è.
(Massimo Bacigalupo, 1994)
*
Si deve avere una mente fredda
per apprezzare il gelo e i rami
dei pini incrostati di neve,
e aver avuto freddo a lungo,
per scorgere i ginepri puntuti di ghiaccio,
gli abeti irruvidirsi nel lontano luccichio
del sole di Gennaio; e non pensare
ad alcuna pena nel suono del vento,
nel suono di poche foglie,
che sono il suono della terra
colmo dello stesso vento
che sta soffiando nello stesso vuoto
per chi ascolta, per chi ascolta nella neve,
e, lui stesso niente, guarda
niente che non c’è e il niente che è.
(Lisa Sammarco, 2008)

“Vocali” di Arthur Rimbaud

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
Un giorno dirò la vostra origine segreta:
A, corpetto nero e peloso di mosche lucenti
ronzanti intorno a esalazioni crudeli

Golfi d’ombra; E, candori di tende e vapori,
Lance di ghiacciai fieri, bianchi re, tremori d’ombrelle
I porpora, sangue sputato, riso di labbra belle
Nella collera o  nell’ebbrezza che si pente

U, cicli, vibrazioni divine di mari verdi,
Pace di pascoli seminati d’animali, pace di rughe
Che l’alchimia incide su ampie fronti  da studiosi;

O suprema Tromba piena di strani stridori
Silenzi attraversati da Angeli e Mondi
O l’Omega, raggio viola dei Suoi Occhi!

Arthur Rimbaud, poeta, Charleville Mezieres 1854, Marsiglia 1891

traduzione di Loredana Semantica

Canto del mattino di Sylvia Plath

L’amore ti ha messo in moto come un grosso orologio d’oro.
La levatrice ti ha schiaffeggiato sotto i piedi e il tuo nudo grido
ha preso il suo posto fra gli elementi.

Le nostre voci echeggiano, esaltando il tuo arrivo. Nuova statua.
In un museo pieno di correnti, la tua nudità è ombra della nostra sicurezza.
Ti stiamo intorno vacui in viso come pareti.

Non sono tua madre più di quanto
lo sia la nuvola che distilla uno specchio per riflettere la propria lenta
cancellazione per mano del vento.

Per tutta la notte il tuo respiro di falena tremola
fra le piatte rose rosa. Veglio per ascoltare:
un mare lontano si muove nel mio orecchio.

Un grido, e scendo dal letto incespicando, pesante
come una mucca e floreale
nella mia camicia da notte vittoriana.
Le tua bocca si apre pulita come quella di un gatto. Il riquadro della finestra

s’imbianca e inghiotte le sue opache stelle. E ora tu provi
la tua manciata di note;
le vocali chiare salgono come palloncini.

Sylvia Plath

Venite di Gottfried Benn

Venite, parliamo tra noi
chi parla non è morto,
già tanto lingueggiano fiamme
intorno alla nostra miseria.

Venite, diciamo: gli azzurri,
venite, diciamo: il rosso,
si ascolta, si tende l’orecchio, si guarda,
chi parla non è morto.

Solo nel tuo deserto,
nel tuo raccapriccio di sirti,
tu il più solo, non petto,
non dialogo, non donna,

e già così presso agli scogli
sai la tua fragile barca –
venite, disserrate le labbra,
chi parla non è morto.

Gottfried Benn, poeta e scrittore, Mansfeld 1886, Berlino 1956

Dove la luce di Giuseppe Ungaretti

Come allodola ondosa
Nel vento lieto sui giovani prati,
Le braccia ti sanno leggera, vieni.

Ci scorderemo di quaggiù,
E del mare e del cielo,
E del mio sangue rapido alla guerra,
Di passi d’ombre memori
Entro rossori di mattine nuove.

Dove non muove foglia più la luce,
Sogni e crucci passati ad altre rive,
Dov’è posata sera,
Vieni ti porterò
Alle colline d’oro.

L’ora costante, liberi d’età,
Nel suo perduto nimbo
Sarà nostro lenzuolo.

Giuseppe Ungaretti ,poeta e scrittore, Alesssandria d’Egitto 1888, Milano 1970

 ( da Il sentimento del tempo – Leggende, 1930 )

Non lo vedete amici di Ingebor Bachmann

Non lo vedete, non lo vedete amici!
che non gli sono sopravvissuta
non l’ho neppure superato, non lo vedete,
che cammino all’indietro, che
d’ora in poi parlo all’indietro, che
mi restringo, butto avanti
i capelli intasco le mani
risucchio le parole, non lo vedete,
non vedete,

che mi allontano da me, che declino,
che mi consegno,
e grido, perchè i pazzi
cercano a tastoni i loro custodi
come io il mio.

Ingeborg Bachmann, nota anche come Ruth Keller (Klagenfurt, 1926 – Roma, 1973), poetessa, scrittrice e giornalista austriaca. 

Ingeborg Bachmann, nota anche come Ruth Keller (Klagenfurt, 25 giugno 1926Roma, 17 ottobre 1973), è stata una poetessa, scrittrice e giornalista austriaca. 

 

E’ strano vagare nella nebbia di Hermann Hesse

E’ strano vagare nella nebbia!
Solo è ogni cespuglio e pietra,
Nessun albero vede l’altro,
Ognuno è solo.

Pieno di amici era per me il mondo,
Quando la mia vita era ancora luminosa;
Adesso, che la nebbia cala,
Nessuno si vede più.

In verità, nessuno è saggio
Se non conosce il buio,
Che piano ed inesorabilmente
Da tutti lo separa.

Strano, vagare nella nebbia!
Vivere è essere soli .
Nessuno uomo conosce l’altro,
Ognuno è solo.

Hermann Hesse, scrittore, poeta, pittore nato a Calw (Germania) nel 1877, morto a Montagnola (Svizzera) nel 1962

“Un esperimento” di Gianni Rodari

tratta da qui
Un esperimento
Gianni Rodari
Un bambino di nome Stefano
aveva cinque anni.
Facevamo un esperimento:
a chiamarlo forte
si toglieva il berretto.
Bisognava fare grande attenzione
per trovare il volume giusto:
assolutamente non piano,
ma nemmeno troppo forte:
indovinare fino a che punto
gli piaceva fingersi sordo
oltre che punto avrebbe rifiutato
di ricevere il messaggio.
Del punto esatto egli solo era l’arbitro.
La regola del gioco era segreta.
Camminava davanti a me senza voltarsi
e quando fu stanco corse via
senz’altro scopo che quello di lanciare uno strido
con tutta la sua gola di passero.
(Da “Il cavallo saggio. Poesie epigrafi esercizi”, prefazione di Edoardo Sanguineti, a cura di Carmine De Luca, Einaudi 2011.)

 

Fin dove volano le api furibonde. Poesie di Emily Dickinson

Emily Dickinson: Api e poesie

(testo originale e traduzione)

*

Ferocious as a Bee without a wing

The Prince of Honey and the Prince of Sting

So plain a flower presents her Disk to thee

Feroce come un’Ape senza un’ala

Il Principe del Miele e il Principe del Pungiglione

Così semplicemente un fiore offre la sua corolla a te

*

Th lovely flowers embarrass me,

They make me regret I am not a Bee

Gli incantevoli fiori mi imbarazzano,

Mi fanno rammaricare di non essere un’Ape

*

I stole them from a Bee –

Because – Thee –

Sweet plea –

He pardoned me!

Li rubai a un’Ape –

Per – Te –

Dolce ammissione –

Lei mi ha pedonato!

*

Fame is a bee.

It has a song

It has a sting

Ah, too, it has a wing.

La fama è un’ape.

Ha un canto

e un pungiglione

Ah, ma anche le ali

*

To make a prairie it takes a clover and one bee,

One clover, and a bee,

And revery.

The revery alone will do,

If bees are few.

Per fare un prato servono un trifoglio e un’ape

Un trifoglio e un ape,

e il sogno.

Il sogno da solo basterà

se le api sono poche.

*

Bee! I’m expecting you!

Was saying Yesterday

To Somebody you know

That you were due –

The Frogs got Home last Week –

Are settled, and at work –

Birds mostly back –

The Clover warm and thick –

You’ll get my Letter by

The Seventeenth; Reply

Or better, be with me –

Your’s, Fly.

Ape! Ti sto aspettando!

Stavo dicendo Ieri

A Qualcuno che conosci

Che eri in arrivo –

Le Rane sono a Casa da una Settimana –

Sistemate, e al lavoro –

Gli Uccelli in gran parte tornati –

Il Trifoglio caldo e folto –

Riceverai questa mia entro

Il Diciassette; Rispondi

O meglio, sii da me –

Tua, Mosca.

*

The Bee is not afraid of me.

I know the Butterfly –

The pretty people in the Woods

Receive me cordially –

The Brooks laugh louder

When I come –

The Breezes madder play;

Wherefore mine eye thy silver mists,

Wherefore, Oh Summer’s Day?

L’Ape non ha paura di me.

Conosco la Farfalla –

Il grazioso popolo dei Boschi

Mi riceve cordialmente –

I Ruscelli ridono più forte

Quando arrivo –

Più folli giocano le Brezze;

Perché il tuo argento mi appanna la vista,

Perché, Oh Giorno d’Estate?

*

The murmur of a Bee

A Witchcraft – yieldeth me –

If any ask me why –

‘Twere easier to die –

Than tell –

The Red upon the Hill

Taketh away my will –

If anybody sneer –

Take care – for God is here –

That’s all.

The Breaking of the Day

Addeth to my Degree –

If any ask me how –

Artist – who drew me so – Must tell!

Il mormorio di un’Ape

– produce in me – Una Magia

Se qualcuno mi chiede perché –

Sarebbe più facile morire –

Che dire –

Il Rosso sulla Collina

Mi toglie la volontà –

Se qualcuno sogghigna –

Stia attento – perché Dio è qui –

Questo è tutto.

L’Interrompersi del Giorno

Accresce il mio Rango –

Se qualcuno mi chiede come –

L’artista – che mi disegnò così –

lo dica! 

Lampi di magnolia di Franco Fortini

Vorrei che i vostri occhi potessero vedere
questo cielo sereno che si è aperto,
la calma delle tegole, la dedizione
del rivo d’acqua che si scalda.

La parola è questa: esiste la primavera,
la perfezione congiunta all’imperfetto.
Il fianco della barca asciutta beve
l’olio della vernice, il ragno trotta.

Diremo più tardi quello che deve essere detto.
Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,
i lampi della magnolia.

Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes), poeta, critico, saggista, nato a  Firenze nel 1917, morto a Milano nel 1994
Franco 

“Proprio il vuoto” di Giovanni Raboni

Per mettersi a giocare in borsa, non mi sembra
il momento buono: è già difficile
di solito, con tante voci sbagliate, con gli agenti
che comprano sempre al massimo e vendono al minimo
(dicono) della giornata… ma adesso
che soffiano vaghi scandali sul foro
e inchieste abortiscono e c’è ogni volta qualcuno
che vien su pancia all’aria, come i pesci
quando si pesca con le mine,
davvero è meglio, se puoi, starne alla larga. (Ed è, riferiscono
i viaggiatori, una gabbia di matti, dove
non cadrebbe uno spillo
anche se poi, a scoppiare è proprio il vuoto.)

Giovanni Raboni, poeta, scrittore, giornalista, Milano 1932 – Parma 2004
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“Qui dentro io sono il sovrano” di Angelo Maria Ripellino

Qui dentro io sono il sovrano
e mi appartengono tutti i colori:
l’azzurro del cielo-gabbiano,
l’inchiostro del mare spurgato da un polipo,
e le gialle campanule di un cotone stampato,
e il rosso sudore dell’arida terra,
e l’aureo torrente delle foglie autunnali.
Tutto ciò mi fu dato e sottratto e ridato
nel mio zoppicante destino, nella mia eterna guerra
per sopravvivere, in questo tremito di acetilene,
e troppe volte gli ho detto addio,
ben sapendo che tutto sarebbe durato
anche senza di me, anche se mi appartiene,
anche se non è mio.

Angelo Maria Ripellino 

Per lei di Giorgio Caproni

Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era cosí schietta)
conservino l’eleganza povera,
ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.

Giorgio Caproni, poeta, nato a Livorno nel 1912, morto a Roma nel 1990

“Amo la mela” Angelo Maria Ripellino

Amo la mela,
la gelida mela, l’angelica
mela compatta,
che mordi con boccuccia azzeccosa,
la pingue povera mela,
che sotto i tuoi denti si sgretola,
creta di frane e di tane giallastre,
che si assottiglia e si strugge,
la giusta, la mela disfatta,
mucchietto di accartocciate alette di ruggine,
spolpata pupattola.

Angelo Maria Ripellino, poeta, nato a Palermo nel 1923, morto a Roma nel 1978

Giocando con asce di Paul Celan

Mit Äxten spielend

 

Sieben Stunden der Nacht, sieben Jahre des Wachens:
mit Äxten spielend,
liegst du im Schatten aufgerichteter Leichen
– o Bäume, die du nicht fällst! –,
zu Häupten den Prunk des Verschwiegnen,
den Bettel der Worte zu Füßen,
liegst du und spielst mit den Äxten –
und endlich blinkst du wie sie.

Giocando con asce

Sette ore di notte, sette anni di veglia:

giocando con asce

tu giaci all’ombra di cadaveri eretti

– Oh alberi che tu non abbatti! –

hai in testa lo sfarzo del voluto silenzio,

ai piedi il ciarpame delle parole

e giaci così e giochi con asce

finché tu al pari di queste scintilli.

 


Paul Celan, poeta, Cernauti 1920, Parigi 1970 

“Tu dentro un sepolcro” di Emily Dickinson

Within thy Grave!
Oh no, but on some other flight –
Thou only camest to mankind
To rend it with Good night –

 

Emily Dickinson

Tu dentro un sepolcro!

Oh no, in volo piuttosto ancora e altrove

Tu solo sei venuto tra gli uomini

per affliggerli con una buona notte.

 

traduzione di Loredana Semantica

 

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