Come sei dolce

Come sei dolce mia tenerezza
mia balbuzie molle chiocciolina
che se non t’avessero
scrocchiato le falangi
sconocchiato le ginocchia
saresti ancora batuffolo
di lana e seta o altro soffice tessuto
come una nuvola di bambagina
e io t’impasterei di piegature e sfoglie
imburramenti e volumizzazioni
come certe preparazioni arabe
che non sapevi o immaginavi
tra il deserto e i barbari
ti farei ancora più aerea
come una bolla di sapone
che sospesa col soffio tenue si tiene
ancora più in alto sempre più palloncina
rossa perchè il rosso è del sangue
e del rigore che dritto fila l’impuntura
perché senza non ci sarebbe il pugno nell’occhio
la sabbiatura la briciola
la pietra l’incudine la goccia
tutto si terrebbe pulito e modanato
d’oro barocco e rifiniture a secco
come un ostensorio nel tabernacolo
della poesia.

La scrittura che rivela. Dialogo con quarantatrè autori contemporanei

Articolo pubblicato su Limina mundi qui. Nel libro è presente tra gli altri un mio intervento del quale riporto in fondo a questo post la parte iniziale

Il libro “La scrittura che rivela – Dialogo con quaratatrè autori contemporanei”, a cura di Maria Pina Ciancio, è stato pubblicato da Macabor nel 2023 nella collana “saggi e antologie”. La copertina è un’elaborazione grafica di Giorgio Ferrarini dell’opera Sanftmütiger Zyklop (Ciclope mite) Ferdinand Seiler, 2021.

La raccolta accoglie gli scritti di alcuni autori italiani contemporanei sul tema della scrittura come atto solitario, intimo e privato, sul senso che la parola scritta ha per ciascuno e sul rapporto della scrittura con l’altro e col mondo esterno. Gli altri autori presenti sono: Maria Allo, Lucianna Argentino, Francesco Arleo, Eleonora Bellini, Domenico Brancale, Michele Brancale, Luigi Cannillo, Roberto Ceccarini, Maria Benedetta Cerro, Maria Pina Ciancio, Domenico Cipriano, Lorenza Colicigno, Pino Corbo, Anna Maria Curci, Mariella De Santis, Francesco De Girolamo, Annamaria Ferramosca, Fernanda Ferraresso, Antonio Fiori, Mario Fresa, Gabriella Gianfelici, Marco Giovenale, Stefano Guglielmin, Gina Labriola, Maria Lenti, Paola Loreto, Anna Rita Merico, Marina Minet, Ivano Mugnaini, Giovanni Nuscis, Rita Pacilio, Antonella Pizzo, Grazia Procino, Maria Pia Quintavalla, Daniela Raimondi, Alessandro Ramberti, Margherita Rimi, Loredana Semantica, Antonio Spagnuolo, Rossella Tempesta, Silvano Trevisani, Giuseppe Vetromile, Bonifacio Vincenzi

Proponiamo di seguito due stralci tratti dal libro stesso. Precisamente la parte centrale della nota di chiusura di Maria Pina Ciancio, e, più sotto, in carattere corsivo, l’incipit dell’intervento di Loredana Semantica. Il testo integrale e gli altri interventi potrete leggerli integralmente acquistando il libro qui o sul sito della casa editrice o negli altri store specializzati on line.

“Rileggendo d’un fiato tutti gli interventi raccolti in questo saggio, ho avuto la sensazione di sentirmi frammento di qualcosa di più ampio. Ogni intervento coglie aspetti, sfumature e modulazioni dello scrivere che spesso non avrei saputo dire o raccontare. Ci sono esperienze che mi sono più vicine, altre che mi illuminano e chiariscono, mi lasciano in riflessione. Ciò che ne emerge è la sensazione che la scrittura assolva in qualche modo a un tentativo di ricerca interiore e di conoscenza che taluni sentono come strumento, altri come compagna di viaggio. Ricerca dell’essenziale, dunque, dell’innocenza perduta, rivelazione di un segreto, esercizio spirituale, e tanto altro ancora. La scrittura, come si può leggere in alcuni interventi, può acquisire, inoltre, significato di rifugio e di salvezza sia dal dolore intimo e privato, sia dai grandi dolori del mondo e dunque, come direbbe Bukowski, si fa salvifica e terapeutica, mondo ritrovato, terra nuova dove poter vivere: «Sento che la scrittura è sempre lì, sento le parole azzannare la carta, e ne ho bisogno come non mai. Lo scrivere mi ha salvato dal manicomio, dall’assassinio e dal suicidio. Ne ho bisogno ancora. Adesso. Domani. Fino all’ultimo respiro.» Che la cultura, i libri, la scrittura salvi oppure no, non ha importanza, ciò che importa è che è un prodotto dell’uomo in cui esso si proietta, sfida se stesso, si riconosce. Ci sono poeti che vivono l’esperienza della parola come libertà, come scatto di ribellione, come appagamento e gioia creativa, altri come dannazione o precarietà, sofferenza, fatica, sudore, o addirittura pudore, inadeguatezza (mi piace sottolineare la parola pudore che oggi abbiamo pressoché bandito dalla nostra vita pubblica e privata a discapito della sfrontatezza e della sfacciataggine).”

Maria Pina Ciancio

Nel fiore della mia gioventù non avrei creduto a chi mi avesse detto che un giorno avrei scritto poesia. Ancora adesso faccio fatica a dirmi poeta. La domanda a cui rispondere tuttavia riporta più propriamente al termine “scrittura” e non “poeta”, cioè al prodotto e non al soggetto producente, e alle relazioni. Ritorno al tema e dico che la mia professione mi ha dato occasione di confrontarmi con la scrittura, apprendendo on the job un certo modo di scrivere burocratico che inizia con “si riscontra” e passando per la S.V., approda a “pregasi accusare ricevuta”. Più di recente va detto la comunicazione dell’Amministrazione pubblica ha teso alla semplificazione del linguaggio, sfrondandolo dalle tare del burocratese: forme passive, impersonali, oscurità di linguaggio, circonlocuzioni e altro. Ho gestito questo transito avvenuto nell’ultimo decennio, conoscendo però le impostazioni del passato. Già in precedenza gli studi di diritto mi avevano formato ad una scrupolosa attenzione per la terminologia, perché sull’uso improprio di un termine si può giocare l’intero concetto, l’intero esame, l’intera causa legale, un intero rapporto con l’altro, amico, estraneo che sia. Direi che preminentemente è lo studio ad avermi resa cauta nell’uso dei termini, a vigilare costantemente sulla parola usata, la singola parola e il loro insieme nella connessione logica dei termini. Ciò vale tanto nella parola detta che scritta, ma nella consapevolezza che l’espressione verbale è più imprecisa e volatile, mentre quella scritta è più studiata, ancorata a un supporto digitale o analogico, quindi più duratura e trasferibile nei luoghi e nel tempo, può produrre effetti lunghi e imprevisti anche nel rapporto con l’altro, secondo i tempi e la volontà di reazione, in relazione alla capacità di comprensione di quest’ultimo. Per questa ragione anche la chiarezza e la sinteticità erano altri “spiriti guida” della personale scrittura.

La scrittura è stata poi una sorta di salvacondotto nelle relazioni. Nel rapporto con l’altro ha sempre pesato la mia natura riservata, non desiderosa di apparire, accompagnata dalla percezione dei limiti di ogni mostrarsi/relazionarsi a causa della falsità e dell’inganno reciproco che esso concretizza. Per spiegarlo con maggiore semplicità, quanti falsi sorrisi spendiamo? Ciò ha reso la scrittura un mezzo per comunicare, interponendo il medium dei segni grafici e del loro assemblarsi che assume senso per convenzione oggettiva, maturata nel tempo tra gli uomini in significante e significato. Scrivere per me è stato da sempre perciò un modo per lavorare il più possibile asettico, comunicare, relazionarmi, potendo nello scrivere soppesare maggiormente il testo, evitare il contatto visivo e verbale perché questi ultimi, unitamente ai contenuti della conversazione privata, sono modalità con le quali le persone si formano la propria impressione sull’altro, formulano giudizi, apprendono informazioni private che poi trasferiscono o peggio ancora diffondono più o meno consapevolmente, inserendo e concorrendo a inserire ogni persona in schemi mentali-critici di valutazione e giudizio per servirsene a proprio vantaggio.

Loredana Semantica

L’amico migliore

disegno digitale di Loredana Semantica

La notte del 20/11/2020 Delia, impiegata di Pisa, quarantasettenne, lunghi capelli biondi, occhi azzurri, occhiali spessi e tanti progetti dismessi, aveva fatto un sogno. La data del sogno già di per sé sembrava comunicare un senso, aveva pensato Delia, il concatenamento numerico era evidente, la ripetizione insistente del numero venti lo rendeva numero angelico. Cercando in internet lesse che esso suggerisce di restare concentrati sulla propria vita spirituale, mentre l’undici era numero da riferire a intuizione, saggezza, percezione e capovolgimento della situazione. E poi c’era quel sogno. Era stato talmente reale che le era sembrato di sentire i profumi dei fiori, il soffio del vento leggero sulla pelle, come se nel sonno fosse stata trasportata in un altro luogo, un altro mondo, un’altra dimensione. Ne era rimasta impressionata al punto che sentì il bisogno la mattina dopo di raccontarlo al marito. Luciano l’ascoltò con attenzione, ma non espresse commenti, al termine sorrise paziente, le fece una breve carezza, poi corse al lavoro nel suo studio di architetto che ultimamente lo assorbiva oltremodo.

Delia non paga di aver condiviso con la sua dolce metà il sogno, lo volle raccontare anche a una cara amica. Ludovica appena immessa in ruolo e trasferita a Lucca a insegnare matematica in una scuola media statale.  Ludovica aveva da poco passato i trent’anni, fisico sottile, ben strutturato e allenato, occhi verdi, capelli corti, castani, mossi, aveva un fidanzato storico, Andrea che l’aveva seguita a Lucca, sperando di poter trovare un’occupazione da informatico migliore di quella finora svolta e, a suo giudizio, malpagata. Delia chiamò Ludovica al telefono nel pomeriggio. Dopo i convenevoli e il racconto dell’esperienza di Ludovica nella nuova scuola, Delia per la seconda volta nella giornata parlò del suo sogno e, nel raccontarlo, fu ancora più precisa, le tornarono in mente tutti i particolari.

“Sai Ludovica” diceva “è stato un sogno bellissimo. Il paesaggio era sereno, luminoso anche se non si vedeva il sole, l’aria appena tiepida, il cielo azzurro acquamarina era disseminato di piccole nuvole rade e spumose, la terra era un saliscendi di cune e dune erbose e sullo sfondo altre dune d’altre tonalità di verde: mela, bottiglia, militare, smeraldo, petrolio… I declivi a perdita d’occhio nascondevano l’orizzonte. Al centro di un prato c’era un cagnolone nero. Il pelo, lucido lungo, folto, fine e morbido. Stava a pancia all’aria, il dorso aderente al prato, sul verde color pisello muoveva allegramente fianchi e coda, piegando il possente torace a destra e a sinistra e i fianchi dal lato opposto con una dinamica ad esse divertente e animata.” Delia prese un attimo fiato, poi proseguì “un’orecchia ripiegata gli ricadeva sugli occhi, l’altra riversa all’indietro mostrava il rosa del padiglione auricolare. Da sotto l’orecchia piegata spuntava l’occhio che sembrava ridesse. Ludovica, io non lo so se può ridere l’ occhio di un cane, ma ti assicuro che sembrava proprio così”

Ludovica la rassicurò “Ma tranquilla Delia, è di certo come racconti. Alcune cose si sentono più che vedersi, ma il cane però aveva una posa davvero buffa, e poi …” “e poi” Delia proseguì la descrizione “il muso era semiaperto sulle zanne in mezzo alle quali spuntava la lingua sottile e rosata, tenera come una fetta di mortadella. L’altro occhio era ben aperto sul bianco della sclera, al centro tondeggiava il marrone scuro dell’iride, il nero della pupilla. Agitava le zampe protese verso l’alto, piegate all’altezza del gomito, il pelo a bandiera, nero dalle punte rossicce, col movimento sventolava. All’estremità delle zampe il rigonfiamento ruvido e sodo dei cuscinetti che terminava nelle unghie brunite, limate dal correre e saltare”.”Cara Ludovica” prosegui Delia “io so riconoscere un cane felice, lo so riconoscere bene. Addirittura, ci crederesti? M’è parso quasi che mi strizzasse l’occhio come un cenno d’intesa e ho capito pure cosa voleva dire: che era un piacere stare bene, grattarsi la schiena contro l’erba fresca, sentire il corpo sano, forte, vigoroso nello splendore della gioventù”. Ludovica l’aveva ascoltata quasi senza interromperla, solo a questo punto osò dire qualcosa “Delia cara hai fatto davvero un bel sogno, era proprio lui, come se fosse ancora con te”. Ludovica era un’amica affettuosa, empaticamente comprendeva l’amica, ma non aveva mai avuto un animale domestico, solo qualche pesce rosso poco longevo, naufragato nelle fogne cittadine via tazza del water. Dopo un attimo commosso di silenzio Delia riprese a parlare “Ecco Ludovica è così che ho sognato il mio cane ieri notte. Appena una settimana dopo che mi aveva lasciato per sempre. Non so se vi sia un paradiso dei cani. Se il mio desiderio ha guidato il mio sonno. Se da quel paradiso mi ha mandato un messaggio. So che lui era la mia rosa del piccolo principe. Mi aveva conquistata, l’avevo addomesticato. Era un tesoro vivente nelle mie mani”. Poi le due amiche parlarono d’altro, del lavoro, del tempo, di abbigliamento. Si salutarono quando Andrea chiamò Ludovica per uscire a sbrigare commissioni.

Delia non superò facilmente il dolore di questa perdita, le ci volle molto molto tempo. Non ne parlava volentieri perché ogni volta il dolore si riaccendeva nella commozione. Si vergognava di soffrirne in modo così evidente e più intensamente che se fosse il lutto di un parente intimo. L’unica spiegazione che si dava era che si trattava di un dolore strettamente intrecciato al senso di colpa e al senso di responsabilità: di non aver fatto abbastanza per salvarlo, per renderlo felice, di non averlo curato e amato a sufficienza, di non aver capito ch’era la fine e non averlo perciò confortato. Solo dopo circa un mese sentì che il dolore si stava attenuando e una notte riuscì a formulare nel segreto del suo cuore il primo vero addio alla bestiola amata: “Ti sia leggera la terra, mio grande amico. Ora ti sostiene un prato di margherite, ti avvolge l’azzurro di un lenzuolo stellato e l’abbraccio di una coperta d’infanzia”

L’animale era stato calato nella profonda fossa di tumulazione con un lenzuolo celeste disseminato di puntini azzurri, passato sotto la carcassa, sorretto alle estremità, era servito a compiere lentamente l’operazione di deposizione. Il corpo era stato prima avvolto in un lenzuolo stampato a foglie verdi e margherite, poi in una coperta a quadri.

Delia quella notte si addormentò pensando che non aveva mai avuto amico migliore, più buono, più saggio e sincero, e da lì, da quella rassegnazione, dalla consapevolezza ch’era stata una ricchezza averlo avuto per tanti anni con sé, la serenità riprese ad abitarla.

Su Versolibero

Felicissima d’essere tra i poeti della mia Sicilia qui su Versolibero.

Felicissima in particolare d’essere in compagnia di nomi prestigiosi di contemporanei e no, come Angelo Maria Ripellino, la cui poesia pirotecnica, ironica, lessicalmente spumeggiante mi conquista.

Grazie di cuore a Versolibero e a Patrizia Baglione, artefice della mappatura dei poeti siciliani. Ci sono anche tutte le altre regioni d’Italia rappresentate dai poeti nati in ognuna di esse. Per ogni poeta una foto e una poesia. Tutte da leggere. https://www.versolibero.com/category/senza-categoria/

Caro Leo…

ph. Loredana Semantica

Essere poeta è un modo di percepire e reagire alle cose del mondo, diventa postura intellettuale che si manifesta nella scrittura, quando essa ti chiama in una sorta di vocazione. Allora poesia diventa quella che convenzionalmente ri-conosciamo: uno scrivere in versi, un contenente e un contenuto, segno e significato. Un poeta riconosce un poeta. Comprende che il suo scrivere ha sostanza e forma in un equilibrio che incanta. Leo era un poeta. A molti era evidente.

Leo è Leopoldo Attolico. Abbiamo appreso la triste notizia della sua scomparsa alla fine della scorsa settimana da un messaggio facebook del figlio e per giorni la bacheca del social è stata tutto un moltiplicarsi di manifestazioni di cordoglio.

Leopoldo Attolico era spesso affettuosamente appellato con l’abbreviativo “Leo” negli scambi dei commenti virtuali da amici e ammiratori, il termine rimanda al latino leo che significa leone. Credo che un poeta sia sempre un leone, perché come tale lotta, lo fa con i versi che vorrebbero ribaltare il mondo, costruirne uno nuovo promanante dal canto, dai suoi desideri e visioni. Versi che criticano, che ricordano, che desiderano. Un poeta è sempre un leone perché la poesia è sempre una forma di resistenza. Egli si fa vedetta, sentinella, sensitivo, guru, veggente e uomo.

Soprattutto un uomo. Leo lo era. Gentile, ironico, garbato, intelligente. Affabile, disponibile e generoso con la sua arte poetica. Questo l’uomo per come appariva nel virtuale e non c’è molta distanza – credo – tra ciò che filtra in rete e il reale. Apprezzati e originali i suoi fulminanti commenti alle poesie condivise sul social da altri scrittori, come “sottoscrivo subito” oppure “obliterata” “imprimatur immediato!”. Ci mancheranno di sicuro. Mi mancheranno di sicuro, ché ne sono stata spesso destinataria. Mancherà ancora di più proprio lui, in tutta la sua essenza poetica.

Per saperne di più potete visitare il suo sito http://www.attolico.it/. Non mi pare sia su wikipedia, mi auguro che qualcuno possa rimediare a questa mancanza.

Di seguito tre sue poesie.

Se fate mente locale
converrete che legato a doppio filo
con la fisiologia lunatica dei versi
c’è sempre lo stupore analfabeta degli invano.

È lì; e noi ce lo guardiamo
implosi e circospetti, come un reperto lavico
fiottato dal cervello, sfrontato sortilegio
confitto in un riverbero d’assenzio
cui piace sempre di esser corteggiato…

*

A dire il vero mia madre
mi ha fatto un po’ maldestramente
asimmetrico
tutto spigoli e crudezze
adunco
tagliente in ogni dove
ma, in compenso
perfettamente godibile
a levante mezzogiorno ponente

Quando tramonta il giorno
sulle vestigia domestiche
il mio profilo indicibile
è un prestigioso attico
assurto a superattico
ubriaco di luce

*

Il silenzio si congeda, è l’alba.
Calda di nido la mia notte è finita;
una poesia fra le mani.

Vengo a guardarti dormire
come fa la vita quando raggiunge una porta socchiusa
e ne allontana innocente il mistero
per lasciarvi un sogno

Il respiro nell’aria

Il respiro nell’aria
come una tavola
come una valvola
come una pietra
tiene il filo sottilissimo
affossato.

L’abbandono comincia
nell’ignoranza vicendevole
spurga viola il porpora
il blu lo contamina.

Ormai di rado
s’intrecciano le linee
hanno esili branchie
piume storne
colpi d’ala

Nel giorno della memoria

Nel 1963 fu pubblicato il saggio di Hannah Arendt  “Eichmann in Gerusalemme. Un report sulla banalità del male”, un diario che la Arendt, inviata del settimanale The New Yorker, tenne sulle sedute del processo ad Adolf Eichmann, militare e funzionario nazista. Catturato dal Mossad in Argentina nel 1960, Eichmann fu processato a Gerusalemme nel 1961 e condannato a morte per genocidio e crimini contro l’umanità. La sentenza fu eseguita nel 1962.

I brani che seguono sono tratti dal saggio.

“Se ci siamo soffermati tanto su questo aspetto [1] della storia dello sterminio, aspetto che il processo di Gerusalemme mancò di presentare al mondo nelle sue vere dimensioni, è perché esso permette di farsi un’idea esatta della vastità del crollo morale provocato dai nazisti nella “rispettabile” società europea – non solo in Germania ma in quasi tutti i paesi, non solo tra i persecutori, ma anche tra le vittime. Eichmann, a differenza di tanti suoi colleghi, era stato sempre affascinato dalla “buona società”, e la correttezza con cui spesso si era comportato con i funzionari ebrei di lingua tedesca era in gran parte dovuta a una specie di senso di inferiorità. Egli non era affatto, come lo chiamò un testimone un landsknechtnatur, un mercenario smanioso di fuggire in regioni dove non vigono i dieci comandamenti e dove ciascuno può sfogare i suoi istinti. Se in una cosa egli credette fino alla fine, fu nel successo, il distintivo fondamentale della “buona società” come la intendeva lui. Tipico fu l’ultimo giudizio che egli espresse su Hitler, disse “avrà anche sbagliato su tutta la linea; ma una cosa è certa: fu un uomo capace di farsi strada e salire dal grado di caporale dell’esercito tedesco al rango di Führer di una nazione di quasi ottanta milioni di persone… Il suo successo bastò da solo a dimostrarmi che dovevo sottostargli.”  Egli non ebbe bisogno di “chiudere gli orecchi” come si espresse il il verdetto, “per non ascoltare la voce della sua coscienza”: non perché non avesse una coscienza, ma perché la sua coscienza gli parlava con una “voce rispettabile”, la voce della rispettabile società che lo circondava.”

“Il problema della coscienza di Adolf Eichmann, che è notoriamente complesso ma nient’affatto unico, non può essere paragonato a quella della coscienza dei generali tedeschi, uno dei quali, quando a Norimberga gli chiesero “Com’è possibile che voi tutti rispettabili generali abbiate seguitato a servire un assassino con tanta fedeltà?” rispose che non toccava a un soldato ergersi a giudice di un suo comandante supremo: “Questo tocca alla storia, o a Dio in cielo.” (Così il generale Alfred Jodl, impiccato a Norimberga.) Eichmann, molto meno intelligente e per nulla istruito, capì almeno vagamente che a trasformarli tutti in criminali non era stato un ordine, ma una legge. La differenza tra ordine e “ordine del Führer” era che la validità del secondo non era limitata nel tempo o nello spazio, mentre questo limite è caratteristica precipua del primo. Inutile aggiungere che tutti questi strumenti giuridici, lungi dall’essere semplice frutto della pignoleria o precisione tedesca, servirono ottimamente a dare a tutta la faccenda una parvenza di legalità.  E come nei paesi civili la legge presuppone che la voce della coscienza dica a tutti “Non ammazzare”, anche se talvolta l’uomo può avere istinti e tendenza omicide, così la legge della Germania hitleriana pretendeva che la voce della coscienza dicesse a tutti: “Ammazza”, anche se gli organizzatori dei massacri sapevano benissimo che ciò era contrario agli istinti e alle tendenze normali della maggior parte della popolazione. Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è – la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero esser tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa (ché naturalmente, per quando non sempre conoscessero gli orridi particolari, essi sapevano che gli ebrei erano trasportati verso la morte); e dovettero essere tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni.”

….

“Il 30 giugno del 1943, molto più tardi di quanto Hitler aveva sperato, il Reich (Germania, Austria e Protettorato) fu proclamato judenrein[2]. Non abbiamo statistiche che ci dicano con precisione quanti ebrei erano stati deportati da quest’area, ma sappiamo che delle duecentosessantacinquemila persone che, secondo fonti tedesche, già erano state deportate o erano candidate alla deportazione nel gennaio del 1942, pochissime sfuggirono: forse qualche centinaio al massimo qualche migliaio riuscirono a nascondersi e a sopravvivere alla guerra. E quanto fosse facile tranquillizzare la coscienza della popolazione tedesca lo si vede bene dalla spiegazione ufficiale che delle deportazioni dette la cancelleria del partito in una sua circolare del 1942: “  È nella natura delle cose che questi problemi, sotto certi aspetti difficilissimi, possano essere risolti nell’interesse della sicurezza permanente del nostro popolo soltanto impiegando una spietata durezza”

Nella Germania del dopoguerra, dove la gente è divenuta addirittura geniale nel sottovalutare il suo passato nazista, la “spietata durezza” – una qualità a suo tempo altamente apprezzata dai governanti del Terzo Reich – viene spesso chiamata Ungut, ossia un “non bene”, una forma di “cattiveria” quasi che il solo difetto di chi la possedeva fosse una deplorevole incapacità ad agire secondo i principi della carità cristiana.”


[1] la collaborazione dei capi ebraici con i nazisti

[2] depurato da ebrei

Io vorrei respiro

Io vorrei respiro. Abbastanza respiro da scrivere di te di me. Di tutto l’intorno e l’intestino. E, dopo aver finito, ricominciare un’altra volta. Scrivendo una storia. Di te di me, diversa da quella, diversa da tutte. E dopo aver finito riprendere. Un altro viaggio un’altra avventura. Una marcia, un galoppo, una scrittura. Di te di me, scrivere ancora, in molti modi sempre diversi, diverse storie. Sempre le stesse. Altri nomi, altri corpi e contesti, ma sempre di me e di te. Scenari, paesaggi, universi. Desolati lussureggianti. Scrivere è scrivere sempre la stessa storia. Perfetta dettagliata controversa. Di me e di te fin dal principio oltre la fine. Dall’inizio all’epilogo. La trama divide poi cuce, taglia e riunisce, percorre strade tortuose, ci attraversa. Perchè l’ha deciso il destino che fossimo storia. Io e te siamo noi. Imaginario e memoria.

Finché dura un’amicizia

Finché dura un’amicizia
regge come un miracolo
un’alberatura che sostiene
e tra i rami foglie farfalle
piccoli animali cardellini
le deliziose stelline dei presepi
lo scroscio leggero di acqua
che scorre per sottofondo musicale
come nella conchiglia all’orecchio
senti il tuo stesso sangue
e ti sembra il mare.


La pace di riannodarti
i fili strappati dal tiro di equini
bardati per la tortura medievale
ad uno ad uno dolcemente
con la pazienza di crederti
con adesione totale una rosa
splendente in spirito
maestà ad altri irraggiungibile
fino al rendiconto del crollo
quando la nudità mostra
la corda della debolezza
come un cilicio sui fianchi
e falsi appaiono i pregi
falsi i difetti e l’anima
di nuovo sola è un intimo
andare avanti inerti.

Una poesia dalla mia raccolta “Magneti”, Porto Seguro Editore, 2023, con traduzione di Patrizia Destro e un mio disegno

Self portrait

Mi accingo all’opera
di biscotti e burro
amara polvere di cioccolato
una volta finita
ben raffreddata
ve ne darei un pezzetto se non fosse che
per altro verso
niente si condivide veramente
come qualcosa che dalle mani
passi attraverso gli occhi
facendosi di carne
di bocca in bocca
per dono di sola forma.

I’m getting ready to work
butter and cookies
bitter cocoa powder
once ended
thoroughly cooled
I’d give you a piece if it wasn’t that
in another sense
nothing we can truly share
like something that from the hands
goes through the eyes
becoming meat
from mouth to mouth
a gift of substance only.

“Mi senti?”. Un mio racconto

Come posso chiamarti: Cara? Compagna di vita? Amica mia?

Quando morirò potrò dire. Ah ti conosco! T’ho voluto persino bene, come ci si affeziona a un acufene oppure al cilicio che stringe ai fianchi e scortica la pelle, ma se manca ci si domanda con smarrimento: cosa si è lasciato indietro di indispensabile al progredire.

Quel giorno, nonostante l’affezione, credimi, lasciarti sarà un gran piacere.

Vivere è stato lottare con te. Contro di te. Siamo state spesso sedute di fronte. In mezzo a noi un tavolino giallo. Mano stretta alla tua mano. Braccio contro braccio. Tu spingevi con una forza inverosimile fin quasi a spezzarlo per farlo cedere pressato verso il tavolo. Volevi battermi. Oh se lo volevi. Sopraffarmi e dirti vincitrice. Poi io con slancio opposto, a mia volta reagivo, riuscivo a risollevarlo.  Ti aggredivo di rimbalzo. Volevo divorarti il cranio. Spaccarti in mille pezzi, strappare il nero delle tue vesti in brandelli dai quali filtrasse luce finalmente!

Avrei voluto ridurti in fin di vita preferibilmente a morsi. Ingurgitarti come una granita. Espellerti come un treno. Vomitarti come un pasto indigesto. Accadeva con te che proprio quando mi sembrava d’essere in salvo nella bolla perfetta del pesciolino rosso – placido lago incantato dove non soffiava vento né si sollevava un’onda – all’inverso mi accorgevo improvvisamente che mi avevi in pugno, ch’ero sul punto di soccombere.

Tante volte mi sei venuta addosso con la potenza di una bestia. Eri furiosa pantera, selvaggia fiera, caricavi come rinoceronte a testa bassa, oppure lavoravi da talpa sepolta che scavava silenziosa un tunnel subdolo da infame. Le tue lunghe impietose unghie trafiggevano la tenera polpa della terra. Non sapevo i tempi o in che forma e modi avresti condotto il tuo ultimo assalto. Se con fare precipitoso o con arte impercettibile e sottile, tessendo una trama di astuta apparenza. Tela di ragno trasparente e sospesa per sferrare l’agguato finale, lasciarla cadere su di me senza preavviso. Non nascondo che spesso come ultima spiaggia ho dovuto sprofondare nelle tue spire, avvoltolarmi ancora più in fondo nel torbido delle spirali addossate l’una all’altra, per trovare finalmente un punto da cui emergere. Generalmente ciò avveniva dal centro, sfruttando la depressione dei cerchi che creavano un incavo dal quale col suono di un risucchio potevo tirare fuori almeno il capo, sporgere il naso. Respirare.

Sei, Amica cara, sempre tu, sempre uguale a te stessa. Ossessiva compulsiva. Un estenuante girare mentale che consuma suole, lima le ossa, insuffla ansia, incalza e non lascia spazio.  

Non so come abbia fatto a meno di te nei giorni più chiari col sole alto nel cielo azzurro, limpido, fin quasi al miracolo. Gli occhi appuntati nelle nuvole che sognavano dietro ai vetri degli occhiali una leggerezza impossibile alle anse cerebrali.  Alberi, fiori, prati e sorrisi. Non so cioè come sia riuscita a liberarmi di te, opprimente megera, e vedere che esisteva la natura circostante e tutta la meraviglia del creato. So d’altronde ch’eri con me negli altri giorni, quelli oscuri, dominati dall’ingovernabile. Caos in cui l’anima annotta come l’aria prima della pioggia, quando improvvisamente si fa fredda e precipita. Generavi l’insubordinazione di ogni cosa, fomentavi gli oggetti a sfuggire al mio controllo per farmi impazzire. Spostavi le cose di proposito perché tutto sembrasse ancora più sconfortante e sussurravi alla gente le cose da dire che mi ferissero più gravemente. Sgomitavi e ridacchiavi con quelli della peggiore specie. Eri un’ignobile serpe, malefica strega.

Ora, dopo tanto lungo percorso a così stretto contatto, sei un’abitudine. Quasi ti cerco a volte io per prima, per non farmi sorprendere dalle tue sortite. Vienimi vicino, penso, aspettiamo insieme l’alba. Ora che sono le tre di notte, mettiamoci comode, prendiamoci un latte caldo assieme. Le nostre lotte si sono evolute, ora le facciamo con la calma sicurezza dell’età. A te forse dispiace di dovermi lasciare fra non molto, a me mancano le forze per oppormi col vigore del passato. Siamo qui due entità fantasmatiche accomunate dalla nostalgia di battaglie epiche. Di patos e dramma. Di sconvolgimenti vitali e passioni soverchianti. Stiamo imbiancando. Cigolano le ossa. La schiena si curva. Forse scema anche l’udito.

Come chiamarti? Cara, compagna di vita, ladra di felicità, nemica mia? Ma mi senti?!

La trasparenza

La trasparenza non sempre piace
ha effetti collaterali anche gravi
come spettatori a teatro gli astanti
vedono l’intestino annodarsi
il cuore che fa capriole vedono
che i vasi sanguigni si contraggono
la testa duole la vescica repleta
deve liberarsi la sacca della bile si riversa
a digerire il pasto grasso
palesi appaiono i pensieri
che si accendono la notte specialmente
quando sfrigolano i condotti
strofinandosi l’un l’altro
producendo fasci di elettroni.

La trasparenza al tempo stesso
è un bene e un male
ti affligge e ti protegge
ti avvolge in un abbraccio
ti soffoca in un cappio
si raccomanda o grida
l’attraversi come l’acqua poi t’annega
è bandiera che sventola alta e fiera
ma se incontri i manigoldi giusti
l’accetta che agiti nel cielo
diventa arma a doppio taglio
ferisci ricevendo male indietro
moltiplicato infinite volte
come un’eco.

L’ambiguità risulta preferibile
aderisce totalmente alla poesia
che ama segretamente la verità
immortalità e inesistenza dicono
che speranze non ne ha.

Due videopoesie dalla mia raccolta “Magneti”

“Penso al consenso” è la poesia che apre la raccolta “Magneti”, Porto Seguro editore, 2023, “A che serve il peso” è la poesia che la conclude. Mi è sembrato significativo accostare alfa e omega in due videopoesie che “aprono” il senso dei testi e coinvolgono più sensi.

Penso al consenso
A che serve il peso

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Cesare Pavese. Un mio disegno digitale

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.

Cosí li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

La poesia “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” di Cesare Pavese, 1950

un mio disegno digitale

Magneti

“Cari tutti”, con la mescolanza di stupore e gioia che accompagna da sempre la nascita di ogni mia creatura, comunico la pubblicazione della mia raccolta “Magneti” con Porto Seguro editore. A questo link è possibile il preordine https://www.portoseguroeditore.com/prodotto/magneti/ “Cari tutti” è virgolettato perché è il titolo della prima sezione del libro, il che ne lascia intuire anche l’intero contenuto.

Il vento alle otto

Il vento alle otto del mattino
era caldo teso deciso
soffiava tra le erbe selvatiche
piegandole all’abbandono d’amore
come un diavolo tentatore
che nasconde il fuoco
sotto un’apparenza di frescura
prometteva un’ esperienza potente
da mezzogiorno infernale.
Qualche pianta non sopravvive.

Una mia poesia con una mia illustrazione in line art

Non so se anche voi

Non so se anche voi registrate
una certa stanchezza di ciò che siete
rispetto a voi stessi
alle reti che vi hanno pescato stretta
la scatoletta dove vi hanno imbalsamato
con olio extravergine di oliva
la polpa tenera che si rompe
con un grissino
stanchezza maggiormente
di come vedete gli altri
imbrigliati nei loro stessi limiti
nel ruotare appresso alle stesse cose
in un vano proporsi dentro la boccia
dei pesciolini rossi
preferibile tuttavia alla provvisorietà
di un sottomarino.

Una mia poesia con una mia illustrazione in line art

Terra rossa terra nera di Cesare Pavese

Terra rossa terra nera,
tu vieni dal mare,
dal verde riarso,
dove sono parole
antiche e fatica sanguigna
e gerani tra i sassi –
non sai quanto porti
di mare parole e fatica,
tu ricca come un ricordo,
come la brulla campagna,
tu dura e dolcissima
parola, antica per sangue
raccolto negli occhi;
giovane, come un frutto
che e’ ricordo e stagione –
il tuo fiato riposa
sotto il cielo d’agosto,
le olive del tuo sguardo
addolciscono il mare,
e tu vivi rivivi
senza stupire, certa
come la terra, buia
come la terra, frantoio
di stagioni e di sogni
che alla luna si scopre
antichissimo, come
le mani di tua madre,
la conca del braciere.

(Terra rossa terra nera da “La terra e la morte“, 1945)

Eresia

E quanto d’altro potremmo
oltre il limite dell’immaginabile
inventare tra le mani voli
nello spingersi verso l’azzurro
del becco che buca le nuvole
e con le ali spavalde forza l’aria
come freccia scoccata
dall’arco immaginario
nell’impeto celestiale che travolge
inarrestabile e potente
e trascina pesci con sé e stelle
occhi che fondono nel tramonto
e vi si specchiano intanto
in borchie tonde d’oro e arancio
nel mistero ch’è il contorno
di squame e filamenti.

Un’eresia che infiamma
l’inseminazione.

Immagine: un mio dipinto tecnica mista su cartoncino

Poesie di Nina Cassian. Illustrazioni di Loredana Semantica

Un mio articolo sulla vita e la poetica di Nina Cassian, con alcune sue poesie illustrate da me, su Liminamundi, oggi.

LIMINA MUNDI

LA STORIA

Nina Cassian è nata a Galati in Moldavia (Romania), sulle rive del Danubio il 27.11.1924. Poetessa, scrittrice, traduttrice, partecipe e erede dell’ambiente culturale e intellettuale rumeno a cui appartengono Brâncusi, Tzara, Ionesco, Eliade e Cioran, come loro dovette subire l’esilio.

Nina Cassian è figlia d’arte, il padre Iosif C. Mătăsaru fu stimato traduttore dei grandi classici (Ghoete, Heine, Brecht). Nina si nutre di questi stimoli e dopo aver completato il liceo, arricchisce la sua formazione approdando a Bucarest e studiando pianoforte e composizione musicale, dove eccelle, recitazione, pittura. Nel 1943 si sposa col giovane poeta Vladimir Colin dal quale divorzia nel 1948, successivamente sposerà il critico letterario Alexandru Stefanescu. Nel 1944 si iscrive alla Facoltà di lettere, ma non ultimerà gli studi. Da quello stesso anno comincia a pubblicare suoi scritti, dapprima sul giornale Romania libera e successivamente edita la prima raccolta “Scala 1/1”, vicina all’avanguardia e perciò…

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