
Saggia apostrofe a tutti i caccianti
Fermi! Tanto
non farete mai centro.
La Bestia che cercate voi,
voi ci siete dentro
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Saggia apostrofe a tutti i caccianti
Fermi! Tanto
non farete mai centro.
La Bestia che cercate voi,
voi ci siete dentro
L’anima, quello che diciamo l’anima e non è
che una fitta di rimorso,
lenta deplorazione sull’ombra dell’addio
mi rimbrottò dall’argine.
Ero, come sempre, in ritardo
e il funerale a mezza strada, la sua furia
nera ben dentro il cuore del paese.
Il posto: quello, non cambiato – con memoria
di grilli e rane, di acquitrino e selva
di campane sfatte –
ora in polvere, in secco fango, ricettacolo
di spettri di treni in manovra
il pubblico macello discosto dal paese
di quel tanto…
In che rapporto con l’eterno?
Mi volsi per chiederlo alla detta anima, cosiddetta.
Immobile, uniforme
rispose per lei (per me) una siepe di fuoco
crepitante lieve, come di vetro liquido
indolore con dolore.
Gettai nel riverbero il mio perché l’hai fatto?
Ma non svettarono voci lingueggianti in fiamma,
non la storia di un uomo:
simulacri,
e nemmeno, figure della vita.
La porta
carraia, e là di colpo nasce la cosa atroce,
la carretta degli arsi da lancia fiamme…
rinvenni, pare, anni dopo nel grigiore di qui
tra cassette di gerani, polvere o fango
dove tutto sbiadiva, anche
– potrei giurarlo, sorrideva nel fuoco –
anche…e parlando onorato:
“mia donna venne a me di Val di Pado”
sicché (non quaglia con me – ripetendomi –
non quagliamo acque lacustri e commoventi pioppi
non papaveri e fiori di brughiera)
ebbi un cane, anche troppo mi ci ero affezionato,
tanto da distinguere tra i colpi del qui vicino mattatoio
il colpo che me lo aveva finito.
In quanto all’ammanco di cui facevano discorsi
sul sasso o altrove puoi scriverlo come vuoi:
NON NELLE CASSE DEL COMUNE
L’AMMANCO
ERA NEL SUO CUORE
Decresceva alla vista, spariva per l’eterno.
Era l’eterno stesso
puerile, dei territori
rosso su rosso, famelico sbadiglio
della noia
col suono della pioggia sui sagrati…
Ma venti trent’anni
fa lo stesso, il tempo di turbarsi
tornare in pace gli steli
se corre un motore la campagna,
si passano la voce dell’evento
ma non se ne curano, la sanno lunga
le acque falsamente ora limpide tra questi
oggi diritti regolari argini,
lo spazio
si copre di case popolari, di un altro
segregato squallore dentro le forme del vuoto.
…Pensare
cosa può essere – voi che fate
lamenti del cuore delle città
sulle città senza cuore –
cosa può essere un uomo in un paese,
sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante
e dopo
dentro una polvere di archivi
nulla nessuno in nessun luogo mai.
Vittorio Sereni
Tappezzeria
Un piede nella fossa
e l’altro sulla tigre impallinata
– così vedo
la mia sconfitta e la mia vittoria
in questa scena venatoria.
Nina Cassian, poetessa, scrittrice, traduttrice rumena, nata in Romania, a Galati, il 27 novembre 1924, morta a New York il 15 aprile 2014
Infestazione
Un tappeto di farfalle morte ai piedi,
morte e morbide
(loro non hanno il rigor mortis).
Io godo di ottima salute.
Ho tirato fuori il fegato,
ho estratto i polmoni,
ho estirpato il cuore
e non mi fa più male nulla.
Tramutarsi in fantasma
è una soluzione
che vi raccomando freddamente.
Nina Cassian, poetessa, scrittrice, traduttrice rumena, nata in Romania, a Galati, il 27 novembre 1924, morta a New York il 15 aprile 2014
Una poesia di Nina Cassian. Illustrazione di Loredana Semantica, (tecnica digitale, pennino su schermo).
Preghiera
Se esisti per davvero – fatti avanti,
sii nuvola, caprone, aviatore,
porta con te occhi, bocca, voce,
– chiedimi qualcosa, lascia che mi sacrifichi,
prendimi tra le braccia, proteggimi,
nutrimi con la settima parte di un pesce,
fammi un fischio, dissodami le dita,
ricolmami di aromi, di stupore,
– resuscitami.
Nina Cassian, poetessa, scrittrice, traduttrice rumena, nata in Romania, a Galati, il 27 novembre 1924, morta a New York il 15 aprile 2014
Una poesia di Nina Cassian. Illustrazione di Loredana Semantica, (tecnica digitale, pennino su schermo).
Veglia
Ero bella, quando mamma moriva.
Avevo pianto e vegliato. E i miei occhi angusti
ringiovanivano sullo specchio del mio volto.
Lei non mi guardava più. Poteva venire
il peggior bandito a spaccarmi il cranio
ma la sua mano non si sarebbe levata
in mia difesa.
Eppure ero bella, come mi desiderava lei,
e la primavera era alle porte: un verde umido
di frammenti vegetali, corrugati,
minacciava di graffiare a sangue il giardino.
Ma prima di allora mamma moriva
ignara di tutto e di tutti
imbrattando il cielo di un sospiro
più impetuoso che mai
– e io contavo
e c’erano venti sospiri
intensi, e dieci appena percepiti,
mentre la notte s’imbiancava adagio
e solo la pioggia colpevole
di nero intonacava il mio muro esterno.
Eppure ero bella, intenta lì a contare
quei sospiri di lotta
ma lei non mi vedeva.
E d’ora in poi nessuno mi vedrà
in quel modo, mai.
Nina Cassian, poetessa, scrittrice, traduttrice rumena, nata in Romania, a Galati, il 27 novembre 1924, morta a New York il 15 aprile 2014
La poesia “Vi sono anime liete” è di Fernanda Romagnoli. Video e voce di Loredana Semantica
La poesia “Tu” è di Fernanda Romagnoli. Video e voce di Loredana Semantica
La poesia “Tirate le somme” è di Fernanda Romagnoli. Video e voce di Loredana Semantica
Oggi è il centenario della nascita di Rocco Scotellaro, un mio articolo su Limina mundi lo ricorda. La sua storia, le sue poesie, le mie immagini.
Nel 1923, il 19 aprile di cento anni fa, a Tricarico in provincia di Matera nasceva Rocco Scotellaro. Poeta, politico e scrittore italiano. Appena trent’anni dopo Rocco sarebbe morto per un infarto, ma certo la sua non può dirsi una vita sprecata.
Nato da una famiglia di umili origini, il padre calzolaio, la madre sarta, fu indirizzato dalla famiglia agli studi, essendo versato in letteratura, s’iscrisse al Liceo Classico presso i Padri Cappuccini e per permettergli di proseguire gli studi tutta la famiglia si trasferì a Sicignano degli Aburni, in Campania.
Trento, Tivoli, Potenza, Napoli, Bari, Cava dei Tirreni sono città dove ha lo hanno portato i suoi viaggi per l’Italia per studio e lavoro. Al termine del Liceo intraprese gli studi di Giurisprudenza alla Facoltà la Sapienza di Roma, ma in lui si accese la passione politica e, senza giungere a laurearsi, decise di impegnarsi attivamente, iscrivendosi al Comitato…
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Il soffio cresce, il buio è rotto a squarci,
e l’ombra che tu mandi sulla fragile
palizzata s’arriccia. Troppo tardi
se vuoi esser te stessa! Dalla palma
tonfa il sorcio, il baleno è sulla miccia,
sui lunghissimi cigli del tuo sguardo.
Poesia di Eugenio Montale dalla raccolta “La Bufera e altro”, 1956
Disegno mio. Tecnica digitale pennino su schermo.
Certo i gabbiani cantonali hanno atteso invano
le briciole di pane che io gettavo
sul tuo balcone perché tu sentissi
anche chiusa nel sonno le loro strida.
Oggi manchiamo all’appuntamento tutti e due
e il nostro breakfast gela tra cataste
per me di libri inutili e per te di reliquie
che non so: calendari, astucci, fiale e creme.
Stupefacente il tuo volto s’ostina ancora, stagliato
sui fondali di calce del mattino;
ma una vita senz’ali non lo raggiunge e il suo fuoco
soffocato è il bagliore dell’accendino.
Poesia di Eugenio Montale dalla raccolta “Satura”, 1971
Disegno mio. Tecnica digitale pennino su schermo.
La poesia “Tu” è di Fernanda Romagnoli.
Video e voce di Loredana Semantica
video e voce di Loredana Semantica
Non leggere odi, figlio mio, leggi gli orari.
Son piú esatti. Svolgi le carte di navigazione
prima che sia tardi. Vigila, non cantare.
Viene il giorno che torneranno a inchiodar liste
sulla porta e a chi dice di no dipinger sul petto
qualcosa di uncinato. Impara ad andare
senza esser conosciuto, impara piú di me:
a cambiar quartiere, passaporto, faccia.
Fai pratica di tradimento al minuto,
di sporca quotidiana salvezza. Le encicliche
sono utili per accendere il fuoco
e i manifesti per incartare burro e sale
a chi è senza difesa. Rabbia e pazienza ci vogliono
per soffiare nei polmoni del potere
la fine polvere mortale, macinata
da chi ha molto imparato,
da chi è esatto, da te.
Hans Magnus Enzersberger
1963 – Traduzione di Franco Fortini e Ruth Leiser
da “Poesie per chi non legge poesia”, “Le Comete” Feltrinelli, 1964
L’ultimo giorno dell’anno
non è l’ultimo giorno del tempo.
Altri giorni verranno
ed altre cosce e ventri ti comunicheranno il calore della vita.
Bacerai bocche, strapperai delle carte,
farai viaggi e celebrerai talmente tanti
compleanni, lauree, promozioni, dolci morti con cori e sinfonie,
che il tempo ne sarà pieno e non sentirai lo strepito,
gli ululati irreparabili
del lupo, nella solitudine. L’ultimo giorno del tempo
non è l’ultimo giorno di tutto.
Rimane sempre una frangia di vita
dove possono sedersi due uomini.
Un uomo e il suo contrario,
una donna e il suo piede,
un corpo e il suo ricordo,
un occhio e la sua luce,
una voce e la sua eco,
e chissà perfino se Dio…Accetta con semplicità questa casuale offerta.
Meriti di vivere ancora un anno.
Vorresti vivere sempre centellinando la feccia dei secoli.
Tuo padre è morto, tuo nonno è morto.
Anche in te molte cose sono morte, altre tengono d’occhio la morte,
ma sei vivo. Ancora una volta, vivo,
e col bicchiere in mano
aspetti di albeggiare.Il trucco di una sbornia,
Il trucco di balli e schiamazzi,
il trucco dei palloncini,
il trucco di Kant e della poesia.
Tanti trucchi: e nessuno serve.Sorge il mattino di un anno nuovo.Le cose sono lustre, a posto.
Il corpo liso si rinnova di spuma.
Tutti i sensi svegli funzionano.
La bocca sta masticando vita.
La bocca è intasata di vita.
La vita cola dalla bocca,
impiastriccia le mani, il marciapiede.
La vita è pingue, oleosa, mortale, surrettizia.
traduzione di Antonio Tabucchi, Einaudi, 2013
Le fonti si confondono col fiume
i fiumi con l’Oceano
i venti del Cielo sempre
in dolci moti si uniscono
niente al mondo è celibe
e tutto per divina
legge in una forza
si incontra e si confonde.
Perché non io con te?
Vedi che le montagne baciano l’alto
del Cielo, e che le onde una per una
si abbracciano. Nessun fiore-sorella
vivrebbe più ritroso
verso il fratello-fiore.
E il chiarore del sole abbraccia la terra
e i raggi della Luna baciano il mare.
Per che cosa tutto questo lavoro tenero
se tu non vuoi baciarmi?
Il cuore non è mai al sicuro e dunque,
fosse pure in silenzio, non vantarti
della vittoria o dell’indifferenza.
Rendi comunque onore a ciò che hai amato
anche quando ti sembra di non amarlo piú.
Te ne stai lí tranquilla? Ti senti soddisfatta?
Potresti finalmente dopo anni
d’ingloriosa incertezza, di smanie e umiliazioni,
rovesciare le parti, essere tu che umili e che comandi? No, non farlo,
fingi piuttosto, fingi l’amore che sentivi
vero, fingi perfettamente e vinci
la natura. L’amore stanco
forse è l’unico perfetto.
Patrizia Cavalli
Nina Cassian, C’è modo e modo di sparire (poesie 1945-2007) – a cura di Ottavio Fatica – traduzione di Anna Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica – Adelphi 2013.
***
Cedere il posto agli anziani e agli ammalati
Viaggiavo in piedi
eppure nessuno mi offrì il posto
anche se ero di almeno mille anni più anziana,
anche se portavo, ben visibili, i segni
di almeno tre gravi malanni:
Orgoglio, Solitudine e Arte.
*
Tirata del penultimo atto
Vi lascio, vi lascio, non vi toccherò mai più.
Io non ho più nulla da dimostrare.
Non vedo dunque il motivo di rinviare ancora
questo naufragar di cellule
chiamate mani, occhi o bocca
nell’argilla paziente, nell’argilla che
non mi aspetta né mi reclama,
stanca ormai della certezza
che le appartengo, nell’orizzonte nullo.
Ho detto quasi tutto quello che sapevo,
persino la menzogna ho pronunciato con devozione
poiché l’ho vista esister, prender corpo,
farsi viva…
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La mia giornata paziente
a te consegno, Signore,
non sanata infermità,
i ginocchi spaccati dalla noia.
M’abbandono, m’abbandono:
ululo di primavera,
è una foresta
nata nei miei occhi di terra.
Allora ero giovane e avevo la forza di dieci.
Per ogni cosa, pensavo. Benché parte del mio lavoro
la notte fosse di pulire la sala dell’autopsia,
una volta che il lavoro del medico legale era finito. Ma di tanto
in tanto staccavano prima, o troppo tardi.
E lasciavano ahimè fuori delle cose,
sul loro tavolo speciale. Un bambino piccolo,
immobile come pietra e freddo come neve…. Un’altra volta
un nero enorme dai capelli bianchi a cui avevano squarciato
il petto. Tutti i suoi organi vitali
buttati in una casseruola accanto alla testa. L’acqua usciva
dalla pompa, le luci fiammeggiavano.
E una volta c’era una gamba, una gamba di donna,
sul tavolo. Una gamba pallida e ben fatta.
Sapevo di che si trattava. Ne avevo già viste.
Questa però mi fece restare senza fiato.
La notte, tornato a casa, mia moglie mi avrebbe detto
«Tesoro, le cose si stanno aggiustando. Daremo questa vita
in permuta, in cambio di un’altra». Ma non era
così facile. Mi avrebbe preso la mano
tra le sue e me l’avrebbe tenuta stretta, mentre io sprofondavo
sul divano e chiudevo gli occhi. Pensando… a qualcosa.
Non so a che cosa. Ma le avrei lasciato portare
la mia mano al seno. A quel punto
avrei aperto gli occhi e fissato il soffitto, oppure
il pavimento. Allora le mie dita deviavano
verso la sua gamba. Che era calda e ben fatta, pronta a fremere
e sollevarsi leggermente, al tocco più leggero.
Ma la mia mente era confusa e agitata. Nulla
stava accadendo. O tutto. La vita
era una pietra, che stritolava e aguzzava.
La ragazzina che sto per bocciare:
tredici anni al massimo,
mai visto in vita mia niente di simile
zero cultura, zero ideologia,
soltanto un’anarchia vitale originaria.
Si butta per terra
dice le parolacce tira i sassi
strappa quaderni e libri.
Le oppongo
una faccia impassibile, di bronzo.
Lei mi guarda con odio ma non sa
quanto io internamente le assomiglio.
Antonio Turolo (Mestre, 1962), da Corruptio optimi pessima (Nuova dimensione, 2007)
tratto da qui
Questo non è
un giorno più difficile degli altri
questa non è una strada più lunga
questo è il giorno
questa è la strada
e così i fiori sono il fiore
e c’è una sola notte
una sola guerra
la molteplicità è un inganno
e così le forme, i messaggi
c’è unità, unità assoluta
nel mosaico vociante
della morte.
(Giacomo Leronni)
poesia tratta dal sito Imperfetta Ellisse qui
The snow man L’uomo di neve
One must have a mind of winter To regard the frost and the boughs Of the pine-trees crusted with snow;And have been cold a long time To behold the junipers shagged with ice, The spruces rough in the distant glitterOf the January sun; and not to think Of any misery in the sound of the wind, In the sound of a few leaves, Which is the sound of the land For the listener, who listens in the snow,
Wallace Stevens
|
Bisogna avere una mente d’inverno per stare a guardare il gelo e i rami dei pini incrostati di neve;E aver avuto freddo per tanto tempo per vedere i ginepri intricati di ghiaccio, gli abeti rugosi nel luccicare lontanodel sole di gennaio; e non pensare al gemito ch’è nel suono del vento nel suono di poche foglie che è il suono della terra per chi ascolta e nella neve sente, Trad. di Loredana Semantica |
qui , su La dimora del tempo sospeso una traduzione e commento di Gianluca D’Andrea
a seguire nell’ordine le traduzioni di: Renato Poggioli, Nadia Fusini, Massimo Bacigalupo, Lisa Sammarco citate nei commenti al post da Francesco Marotta
Si deve avere un animo d’inverno
Per contemplare questo gelo e i pini
Con le rame incrostate dalla neve;
E avere avuto freddo lungo tempo
Per guardare i ginepri irti di ghiaccio
I rudi abeti nel brillìo remoto
Del sole di gennaio; e non pensare
D’alcun duolo nel gemito del vento,
O nel suono di queste poche foglie,
Voci di una regione visitata
Da quel vento che sempre
Sibila sullo stesso nudo luogo
Per chi ascolta, chi ascolta nel nevaio,
E nulla in sé medesimo, contempla
Là quel nulla che è e che non è.
(Renato Poggioli, 1954)
*
Bisogna avere una mente d’inverno
per osservare il gelo e i rami
dei pini incrostati di neve;
e avere patito tanto freddo
per guardare i ginepri ricoperti di ghiaccio,
gli abeti ruvidi nel distante riflesso
del sole di gennaio; e non pensare
alla miseria che risuona nel vento,
tra le rade foglie,
il medesimo suono della terra
attraversata dal medesimo vento
che soffia nello stesso spazio spoglio
per chi in ascolto, ascolta nella neve,
e lui stesso un nulla, guarda
il Nulla che non c’è e il nulla che c’è.
(Nadia Fusini, 1985)
*
Si deve avere una mente d’inverno
per guardare il gelo e i rami
dei pini incrostati di neve,
e avere avuto freddo a lungo
per vedere i ginepri irti di ghiaccio,
gli abeti ruvidi nel chiarore lontano
del sole di gennaio, e non pensare
a un dolore nel suono del vento,
nel suono di poche foglie,
che è il suono della terra
percorsa dallo stesso vento
che soffia nello stesso nudo luogo
per l’ascoltatore, che ascolta nella neve
e, nulla in sé, vede
nulla che non sia lì, e il nulla che è.
(Massimo Bacigalupo, 1994)
*
Si deve avere una mente fredda
per apprezzare il gelo e i rami
dei pini incrostati di neve,
e aver avuto freddo a lungo,
per scorgere i ginepri puntuti di ghiaccio,
gli abeti irruvidirsi nel lontano luccichio
del sole di Gennaio; e non pensare
ad alcuna pena nel suono del vento,
nel suono di poche foglie,
che sono il suono della terra
colmo dello stesso vento
che sta soffiando nello stesso vuoto
per chi ascolta, per chi ascolta nella neve,
e, lui stesso niente, guarda
niente che non c’è e il niente che è.
(Lisa Sammarco, 2008)
no
non c’è più spazio
né accesso a niente
a nessuno
più niente di bello
nel marketing
che tutto ha mangiato e assorbito
e ogni ora che passa
peggiora lo schifo
che già è tutto schifo
e niente più è niente
e mancano tutte le cose
i ragazzini giocano a calcio
i bambini giocano ai giochi
i letterati ascoltano le loro voci
amplificate nei microfoni
che nessuno ascolta
tramontati i valori antichi
non ce ne sono di nuovi
e solo dolore miseria sporco
un gruppo di avvinazzati
continua a parlare a voce alta
così nessuno sente niente
di ciò che farneticano i letterati
e tutti disturbano tutti
e poi tutti se ne vanno
tutti felici di aver disturbato tutti
di aver sparso piccoli semi
di infelicità
ecco la felicità residua:
lo spargimento dell’infelicità.
Massimiliano Chiamenti, poeta (Firenze, 1967- Bologna, 2011).