Lei nella vita

1.10

Lei nella vita

avrebbe potuto molte cose

farsi altra ad esempio diventare altrove

invece è stata veramente

2.10

dapprima una neonata

funcia sdignata  per la cronaca

come testimonia la foto

del primo compleanno

3.10

la madre racconta che quel giorno

uscirono a cercare un po’ di luce

il sole abbagliava

le tarde ore di un pomeriggio settembrino

e lei in piedi con torta e candelina

sul cofano scuro dell’automobile di famiglia

4.10

è stata figlia

femmina irrimediabilmente

eternamente seconda

dopo una prima vittoriosa

alla quale fu imposto il nome della nonna

seconda dunque e per questo ansiosa

di compiacere i genitori

nella speranza di sconvolgere l’ordine

precostituito dei fattori

5.10

buffona scontrosa complessata

secondo la sentenza del rettore

che professore al liceo di religione

non si sa per quale ragione

assegnò ai ragazzi un compito indiscreto

cari parlate di voi stessi

6.10

lei ritenne a posteriori che volesse

etichettare l’anima di ognuno

incasellare gli studenti

nello schema rassicurante

dei suoi studi di psicologia superiore

7.10

fidanzata per molti anni

amica distaccata

lavoratrice emigrata

studente parente

in linea ascendente e discendente

diretta o collaterale nei vari gradi

del diritto di famiglia

8.10

sposa lontana madre moglie

orgogliosamente mamma

impiegata pendolare

anima del focolare

più precisamente

di una cucina a incasso

a quattro fornelli

e forno a gas

9.10

e dopo tanto essere

nel lungo e largo dell’esistenza

coro di voce sola per silenzio e assenza

ricercatrice mistica

di moto cosmico  interiore

10.10

in attesa di un segno celeste

almeno uno d’appartenenza

auspicio definitivo risolutore

grand’arcano magnifico

di parole e voli

The lady of Shalott

La leggenda della Dama di Shalott, già ripresa e narrata dal poema di Alfred Tennyson, è stata interpretata da Loreena Meckennit  nella canzone che è colonna sonora di questo caleidoscopico video.

 

Molte sono le versioni fiorite a raccontare questa misteriosa leggenda, tra le altre l’interpretazione che essa sia la metafora dello scrittore che vive nel mondo che esso stesso s’inventa scrivendo, incapace di vivere quello reale.

Con miei versi.  

The lady of Shalott

 

Nella torre di Shalott tra i fili
intrecci di uccelli la lana
l’erba tra rami alla tela
le mani veloci e leggere
la dama tesseva le stelle
di luna i capelli e la pelle
l’immenso acceso a colori
i nodi al tessuto dei fiori.

Lei guardava talora distratta
dal lato diverso da Camelot
il mondo fluttuante allo specchio
la siepe le sagome in ombra
i barbagli radianti di luce
le spalle voltate alla reggia
cantava la dama di Shalott.

Madre che mi lasciasti
padre da tempo perduto
il mistero stregato è nel cerchio
una rosa di male oscuro.

Ma un giovane bello cavalca
i riccioli neri lo scudo
nel sole brillante il riflesso
la fata depose la tela
sporgendosi verso lo specchio
l’incanto la prende d’attesa
sgomento alla gola proteso
volle in quel giorno tremante
voltarsi alla vista dell’oltre
la mente rapita dagli occhi.

Un grido echeggiò nello specchio
la tela sopraffatta si ruppe
di schianto maledetto lo strappo
incantesimo infranto divelto
lei sente la vita che esce
strisciando ai polsi dal petto
raggiunge a tre passi la barca
e lascia la sponda di Shalott.

Madre che mi lasciasti
padre da tempo perduto
il mistero stregato è nel cerchio
una rosa di male oscuro.

Scivola lenta la barca
lenta come lenta è nell’acqua
la goccia che spreme il respiro
il sangue che a freddo si stacca
giunge la dama alla reggia
nel soffio di gelo la barca
il corpo delicato nel bianco
le vesti la candida mano
dissero bella la dama
impauriti segnandosi in croce
bello il suo viso composto
nel velo mistero d’eterno.

Sviscerato (epilogo)

 

E’ la fratellanza  delle lingue

che rende intollerabili gli sguardi

lame che s’incrociano nel limbo

a ritagliare il buio nella notte

lo scatto delle serrature e porte

chiuse nelle stanze dei bottoni.

 

E’ un imperativo insostenibile

l’obbligo di promuovere se stessi

impervia gara d’apparenza

che fermenta la composta

comunanza ipocrita d’intenti.

 

Il riverbero sociale alimenta

la coesione delle umane genti

coi coltelli affilati per tagliare

corpi e mondi di deboli e paure

i falchi a comandare il bene

e le colombe uccise dall’amore.

 

Come poter dire a voce franta

l’impensabile presente

stare rigonfi sempre a galla

aggrappati al bordo d’immersione

vivere l’invivibile pressione

dei violenti pugnali quotidiani

il delirio che procede al delta nero

nei fiumi di facile aggressione.

 

Come svettare per (bi)sogno

per bellezza per soffio della luna

per ascesi verticale e progressione

di catarsi a issare una bandiera

insostenibile ricordo di purezza

impareggiabile luce della neve

che declina colline ed orizzonti.

 

Negarsi è la resa di materia

l’ultima spiaggia infima scogliera

l’assenza ostinata della carne

per voto d’ estrema resistenza

lo spirito che si fa corpo celeste

la presenza tangibile dell’essere

le mani a stringere l’essenza

anima che divide in due il gheriglio

saturando il vuoto di astinenza

che divora vomitando il mondo.

 

 

Tutto questo spasmodico scavare

sovraespone ad oltranza le radici

rivolgendo il cielo in terra dove

la voce dal margine germoglia

per rinunzia ostinata alla sua orma

fiori dona dai rami della notte.

 

  

Sviscerato poemetto

Soffiano le vostre lingue

sibilanti dentro gli otri

vogliose di foglie da staccare

ai rami alti dell’albero dei frutti

profanare la sagoma del corpo

per spossessamento dell’involto

mal di vuoto che spalanca dentro

spandendo  avverbi  e congiuntivi.

 

Non ci sono più vene nel cervello

né vanesio desiderio d’apparire

di mostrare la lingua umida a leccare

scenari vellutati e piedistalli

non il fianco da prestare

a cataloghi etichette

né targhette da incollare sulla fronte

nel registro del dominio societario

per pretesa ributtante di controllo.

 

E se pure avesse luce un giorno

l’atteso tempo dell’epifania

(ecce formica mondo) nel sogno

ben poco avrebbe vita oltre le scarpe

forse soltanto l’enormità del pianto

che al palato affiora dissanguando

il cuneo che s’incastra lento

a scardinare la poesia e la bocca

aperta esattamente al centro  

della breccia dilatata dello scempio.

 

Direi che sono scorie le parole

per anelito d’eternità sconfitto

in pasto all’iperego dell’autore

nudo verme in terra sillabante

che non bastano tre dita

lanciate verso il sole a velarne il viso

a ricoprire il solco della carne.

Sviscerato opposto

La curiosità è di sapere

spinta santa a cosa eccelsa

l’invenzione la scoperta

l’arco dopo la tempesta

ma non è questo lo scenario

quanto nido incatramato

grumo scarto nembo di travaglio

sensi interminabili sospesi

tra precipizio e rami

dissennati.

 

E ritornate al masso lacerato

insistenti e biechi come spilli

protestate il possesso dell’essenza

coniugando impatti a denudare

e domande inferte come spade.

 

Rostro insano è il vostro succhiare

empio immondo e senza freni

l’apice del sacco cerebrale

forma di midollo scanalato

scavato da tremila buchi

e da millenni di conati.

 

Eppure lo sapete

pulsano di sangue

le parole agli angoli del labbro

se lasciate andare.

Sviscerato seguito

Vorreste voi la donna

quell’essere mai visto

vederla come fosse

divina cosa o mostro

fenomeno da circo

bestia rara.

Vorreste l’epifania del volto

che si nasconde al mondo

per pudore.

Ma il verbo non è ostia

spezzata come il pane sull’altare

non può donare uva oltre misura

versare sangue al corpo e vino

pompare occhi ai seni gonfi

vestiti ai semi bianchi e denti

mostrar la lingua la struttura

i capelli arricciolati l’andatura

il gesticolare a punte mosse

trenta spalle ad ali di farfalla

la forma delle mani piccole

e sfruttate

le unghie minime mai avanti

il giro tondo della bocca

che forma in “o” le labbra

da bambina.

Sviscerato inizio

La polpa che ho già dato

è tanta

è neve carne fuoco

consegna in vita fiato

è sviscerato

tutto quanto posso

e oltre

è amore è morte.

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