TITANiO di Loredana Semantica, Terra d’ulivi edizioni, 2023

Il mio ultimo libro, appena pubblicato. E’ una raccolta di una parte delle poesie scritte nell’arco di un decennio, tra il 2010 e 2021.

La copertina di TITANiO è un’opera dell’artista Anna Ferraresi, (collage e tecnica mista)

Per l’acquisto qui il link al sito della casa editrice, ma lo trovate anche su Amazon, ibs, libreriauniversitaria, mondadori ecc.

Per saperne qualcosa di più foto del libro e sinossi sul sito di Lucaniart.

La fine e l’inizio

La fine dell’anno e l’inizio del nuovo fa pensare a tutto il fare del tempo trascorso. In numeri. La cartella del mio lavoro fotografico anno 2014 contiene 3715 file d’immagini, di queste ne ho elaborate/pubblicate su facebook 342. Il file word dove ho trascritto i testi poetici del 2014 si compone di 30 pagine, 33564 parole, 279 righe. Il file word del primo libro dei “Dialoghi” (titolo provvisorio), che ho scritto quest’anno, è formato da 36 pagine, 7000 parole, 39905 caratteri e 332 righe, il file del secondo libro dei “Dialoghi” (sempre titolo provvisorio), ancora al suo principio, contiene 5 pagine, 914 parole, 5210 caratteri, 43 righe. Ho pubblicato con Decomporre Edizioni 2 poesie in un’ antologia. Ho tradotto alcune poesie di Emily Dickinson, Mark Strand, Wallace Stevens. Sul blog “Blanc de ta nuque” Stefano Guglielmin ha pubblicato una mia nota introduttiva al lavoro poetico di Giuseppe Samperi. Su facebook ho inaugurato il nuovo gruppo “La rosa di nessuno”, che coamministro con Deborah Mega e che si sta rivelando un’esperienza piacevole ed interessante. Tra le mie note  su facebook ho pubblicato un commento in margine alla finale dell’ultima puntata del programma televisivo “The Voice”. Sempre su facebook ho proseguito la gestione del gruppo – pagina Fuoco Visuale/Visual Fire e la cogestione del gruppo – pagina Beauty. Curo ancora questo mio blog “Di poche foglie” con tempi lunghissimi. E’ stato un anno come gli altri. Di buono c’è che posso fare ancora altro, proseguire nel 2015 la mia ricerca, andare ancora avanti.

Dialogo X

– potremmo nel respiro essere. come conchiglie nel reflusso.

potremmo ancòra essere. scoglio àncora marea.

– angelo combattente. e insieme niente

anch’io ogni tanto mi ridimensiono. mi dimentico e da sola mi perdono.

– penso che tu mi debba qualcosa nonostante. almeno il nome

c’è come una balaustra. un orologio che muove gli ingranaggi. una macchina che corre senza sbagli. freccia ostacolo battuta. tutto il peso di una roccia. siepe.

– sfuggi alla domanda. non determini la stirpe. tutte le scarpe dei tuoi piedi.

l’ undici maggio  di quest’anno è morto un poeta. nato nel millenovecentosessantuno. io non lo conoscevo. ma questo poco importa. chissà quanti poeti non conosco. lui però scriveva bene. e firmava  col suo nome. un nome da poeta. Stefano Leoni.

– se hai un nome esisti. se hai un nome ti chiamano col nome. e anche se muori ci sei oltre la pietra. il tuo dire è figura. corpo con scheletro a contorno.  hai occhi bocca orecchie. fronte labbra sopracciglia. arti mani e tronco. dita. come fossero icone con un orlo. impalcatura che articola gli snodi. ceppo di legno che sostanzia. sagoma a substrato d’ossa. è bello avere un nome. essere nuda faccia coi capelli. sentirsi nominare come.

sei all’angolo della bocca.

– non è facile trovare alternative.

il genere è coerente. la parola antica.

– come l’ombra e la  luce. il vento e la terra. il tronco e la radice. fiume e sponda.

come il leone e la farfalla. il seme e la pianta. gemito e germoglio. anelito ed orgoglio.

– c ’è sempre la terza persona singolare.

io non ti vorrei chiamare. lasciandoti piuttosto nel contorno. come se fosse chiarore di veggenza. o d’evidenza.

– io invece ho una certezza che ti investe

che sia io la foglia terminale. 

– che respingi il culmine di netto. e fai fatica ad accettare. svolgi una pretesa di protesta. che stronca l’alba. rigurgita faville. confonde anche  le ossa. infilza lo sterno con lama della notte.

preferisco tessere con mani informi. reggo  in ogni piega delle pelle.

– scuci a tratti il tuo orizzonte. ne fai dettato debole. infine lo ribalti. nella dialettica scorticata dei contrasti.

c’è come un taglio  verticale. dove ripetutamente sfondo e affondo.

– senza che il volo abbia mai fine

senza che il  domani sia presente. tesso un limbo soffice gravido di superficie.

– è che non ti accorgi di volare. come quelli che sul treno. vedono gli alberi passare.

forse non ho occhi abbastanza. da cogliere le frecce. ho vento a sfavore nelle sclere.

– dico solo che ti aspetto.

dico che planerò un giorno. tra le tue braccia.

– ti addormenterai col capo sulla spalla.

come un uccello piega sotto l’ala la testina. un agnello nel ricovero le ginocchia. come se fossi ancora la tua bambina.

Dialogo XI

– imporre la grazia è un rovinio continuo. vorrei invece che scendesse. come una pioggia sottile. su tutte le vesti e i gesti. sulle teste i capelli e le menti. sugli alligatori e i rinoceronti. sui serpenti.

– la città come una giungla. una savana di albicocche. pesci nei fiumi e tartarughe morte.

– eravamo così desiderose di straordinario. che vedevamo un miracolo in uno sbadiglio.

– denudarsi è un atto di ribellione. c’è chi lo fa col corpo. c’è chi soffre a colazione.

– quando tu ci dicevi sono finito. ti parlavamo di Delano. ma il parallelismo non teneva. era una forma di lusinga reciproca e alla vita.

– questo dettaglio in un deserto. fa quasi tenerezza. come un cucciolo felino.

– il tuo che schifo invece era una specie di intercalare. ma come darti torto. adesso anch’io lo vedo debordare. alzarsi sedersi. invadere la scena. bere mangiare parlare. presenziare in ogni luogo col disgusto.

– talvolta era la maschera della commozione.

– come per un regalo o un’emozione.

– a volte mi vergogno di sapere usare così bene le parole. di comporle nello spazio come un fiore. è quando vedo cose sconvolgenti. allora penso l’inutilità d’ogni pronunciamento. allora mi rifugio nel silenzio.

– taci già abbastanza.

– pensi che sia evidente.

– l’evidenza è relativa all’attenzione. pensi che qualcuno te ne presti.

– talora qualcuno.

– ma c’è un mondo dove sei presente.

– qualche volta l’ho creduto. adesso meno che niente.

– ti sfogli come una corolla.

– come un libro spaginato. come un barattolo spaiato. come la vernice della porta esposta alla salsedine. quando il tempo logora la superficie. quando l’usura scrosta il legno e morde fino al collo. al suo midollo.

– spieghi l’inevitabile. un accadimento comune a ciò che vive.

– sempre più spesso dall’alto. come fosse altro. vedo i passi del mio metro. i capelli usualmente scombinati. un poco finti di stoppa mal cardata. scarsi vestiti e poca roba. sufficientemente odiosa. dove c’era la spalla ora la pena. dove consolazione e tenerezza adesso brulle zolle e vetro a pezzi. un andamento sazio una mai certezza. un cercine che logora le radici. la durezza che non basta a compensare. neanche se le unghie inspessite dall’odore. fossero zappe per svellere. rostri di un vomere impazzito. è un fatto di pianto e di respiro. di respiro e pianto. un cerimoniale di fermezza. sui tasti tra le lunghe dita. le prenotazioni dovute per ricordi. è la percezione o consapevolezza. che tutte insieme in volo. si radunano le capinere. sospeso nell’aria un frullo d’ali. e un’ansia spaventosa di ginestre. un languore del giallo strepitoso. come se ci fosse ancora il sole. come se potesse scoppiare in cuore. qualcosa di prodigioso e inenarrabile. e invece sale.

– passerà tra i tronchi la bufera. e le chiome dei cerchi alti. satureranno il bosco di viole. il vento spazzerà la piazza. e le buste di plastica ruotando. investiranno i campi. le foglie faranno mucchi rossi. di crepitii autunnali. nelle pozze si specchierà una luna limpida. animale.

– è il desiderio d’arrembaggio. la voluttà catartica dei primi. il punto cardinale delle occhiaie. lasciano i vermi al pasto. i cani ai collari. il peso degli uomini alla terra. al cielo gli animali.

– quando più si accende la tensione. tanto più ti chiudi alla chiarezza. e lanci criptici messaggi. perché nulla comprenda il tuo sarcofago. la mummia. la carezza.

– dallo spirito contratto sgorga un fiume. senza argini a pescare. senza fondo e sponde. solo piena di tracollo. tutti i covi colmi. tutti i rovi.

– si legge di molti lo spaesamento. ma quello smarrimento senza madri. senza luogo che sia pace. che riempie il pianeta e lo fa vuoto. non è il tuo ricamo. non il tuo posto. è un comune intonaco che scrosta.

– e cade insieme all’erba agli alberi a quei fiori. che annusano le api. insieme all’aria ed all’acqua. insieme a tutti gli elementi della terra.

Nota a “L’informe amniotico” di Giorgio Bonacini

Una scansione temporale inversa, dove il già accaduto appare come un presente ulteriore, può significare una ricerca che tenta di rendere sensibili ed evidenti a se stessi connessioni e significati vissuti, ma che necessitano di nuova percezione ed esperienza. Dalle profondità del passato, scandito in sequenze di ore piene di tempo compresso, si recuperano momenti esistenziali, prove di vita che, momento dopo momento, ritornano all’oggi: o meglio allo zero presente di una esterna, perché visibile in scrittura, interiorità singolare e frastagliata nei suoi eventi.
Ma per chi è in atto di poesia, consapevole del suo fare concreto, come ci mostra Loredana Semantica in questi appunti poetici numerati, sa che anche la scansione materiale del testo produce la sua significazione: ad esempio nell’emozione di un senso che è gratitudine e palpitazione anche a partire da una piccola fonìa grafica: là dove annota che la perfezione della sessantatreesima ora “risparmiò una e. e dentro aveva il tre” e la fatica di una nascita all’infinito. Si vede dunque chiaramente la valenza poetica di una forma del sentimento che va dall’alfabeto alla significazione continua di un perenne inizio di senso. Una progressione continua, dunque, una scansione che sembra avere un andamento che è più una distensione che un cammino. I testi infatti si presentano sulla pagina come delle riflessioni senza versificazione, salvo il fatto di essere punteggiate, e perciò respirate interiormente, con un ritmo che è connotazione di un lento stato, come di attesa.
Scrivere allora diventa un modo, passo dopo passo, di raccogliere figure e sostanze, percezioni e immagini, in un brusio modulato che prende corpo e pensiero. E dove noi che leggiamo ne sentiamo le fluttuazioni, da un estremo all’altro, di quel particolarissimo essere lirico che è l’ansia del poeta. Ogni tanto però il testo da lineare ritorna in strofe, senza segni di punteggiatura, rette solo dal proprio scandire lo spazio e il tempo della scrittura e della lettura: della parola detta e della parola taciuta, anche quando “accade che si scriva/ed è un errore”. Ma non c’ è modo di smettere il canto, perché è lì a dare evidenza esemplare al proprio dire, a disincarnarlo dal corpo centrale per desiderio di leggerezza o di precisazione nel suo offrirsi totale.
E nonostante l’io sia una “preda indifesa”, nel testo si lascia andare a circonvoluzioni di assoluta e precisa libertà, dove la luna ritorna ad essere la poesia centrale: in un impeto di suono, rime, assonanze che scandiscono un momento di bellezza e purezza.
Poi qualcosa ripiega in se stessa e dentro di sé tace, seppur con fatica, anche i modi in cui la vita si snoda, si arrotola, si contrae e sembra all’apparenza contraffarsi. Ma nonostante questa ferita dentro il senso, questa difficoltà nel comprendere i segnali e la voce che ten-ta di fermare la conta delle ore, c’è ancora un TU, un altro a cui donare ciò che appartiene e che abita la poesia: la parola. E se anche sono “parole vuote”, quando le vedi davanti, una dopo l’altra, sono “come fiori offerti. come fiammiferi accesi”. Perché non è possibile, quando il linguaggio chiama la lingua a farsi suono, voce e poi scrittura in segni necessari alla propria sconosciuta origine, non considerare l’ascolto di sé, che scrive se stesso, di natura universale, nello “scivolamento costante” verso un’origine materna, inesauribile.

Giorgio Bonacini – Settembre 2012 –

Natura morta (recensione di Sergio Gabriele)

tratto da qui

Natura morta

di Sergio Grabriele per FemminArt Review

 

C’è qualcosa di estremamente vivo e vivace nelle nature morte di Loredana Semantica. Una impalpabile poesia della vita, espressa da una donna poeta prima ancora, o congiuntamente, che visionaria, tesa alla ricomposizione delle mentite spoglie, dei poveri resti che questo mondo ci mette ormai a disposizione, rifiuti di una ideologia più che del processo produttivo. Una irrisione dei significati per come sono oggi mulinati dalla babele iconografica dei sensi, una riedificazione dell’interiore vissuta nell’intimo attraverso gli oggetti che come pietre ci vengono scagliati contro.
continua a leggere

Loredana Semantica: “L’informe amniotico. (appunti numerati e qualche poesia)” – Finalista Opera Prima 2012

tratto da qui

Loredana Semantica: “L’informe amniotico. (appunti numerati e qualche poesia)” – Finalista Opera Prima 2012

di Rosa Pierno (che ringrazio infinitamente)

Il decorso antiorario delle ore, che scandisce ogni lassa, è la scenografia che consente di intubare nel cunicolo temporale venutosi così a creare l’evento  situato in un futuro già accaduto.  Sorta di cannocchiale a rovescio, in cui poter guardare alle cose passate come se non avessero ancora avuto luogo. Quale opportunità può dare la conoscenza di un evento di cui si conoscano le conseguenze su una scelta che sia ancora da effettuarsi?

Loredana Semantica ha lo sguardo rivolto sia alle pagine profetiche sia alle schermate pubblicitarie, ove il punto in comune è che tutto ci guarda, tutto ci invia un messaggio che dovremmo essere capaci di comprendere, ma che non sappiamo decifrare. In questa frattura, s’installa la valenza tragica di questo testo: continua a leggere

Opera prima 2012, due appunti

tratto da qui

Lunedì, 19 marzo 2012

Opera prima 2012, due appunti

di Giacomo Cerrai

L’iniziativa di Poesia 2.0 “Opera prima”, in collaborazione con la collana omonima edita da Cierre  Grafica e diretta da Flavio Ermini, ha poi trovato qualche settimana fa  il suo esito. Il consiglio editoriiale della collana, sulla base di una  terna espressa dalla giuria (o comitato di lettura) di cui facevo parte  anche io insieme a Giorgio Bonacini, Stefano Guglielmin, Gilberto Isella e Rosa Pierno, ha assegnato il premio, con conseguente pubblicazione  gratuita, a Manuel Micaletto per la silloge “Il piombo e lo specchio”. Gli altri due finalisti erano Loredana Semantica con “L’informe amniotico” e Veronica Sara Pinto con la raccolta “Poesie 2010-2011”. Tutte e tre le opere sono leggibili nella loro interezza [QUI]. I partecipanti erano stati una ventina, il valore molto variegato. Per il 2013 Poesia 2.0 replica, come può leggere [QUI] chi volesse partecipare.

Un’opera prima non è mai tale del tutto, tutte le  dichiarazioni di poetica che hanno accompagnato le raccolte inviate  testimoniano un percorso culturale e creativo già alle spalle, una  riflessione, una maturazione, di cui l’opera prima deve essere il  coagulo. Un’opera prima è sempre qualcosa di interessante,  forse quasi  al di là del suo valore. Perché si spera che offra indizi sul futuro,  degli autori o della poesia in genere, qualche frammento di nuove  tematiche o territori poetici, qualche segnale, per quanto vago, dello  spirito del tempo che spira da queste parti, qualche indicazione sulla  lenta evoluzione della forma e del linguaggio. Non credo che sia  chiedere troppo, in fondo. Era (ed è) almeno questo l’impulso primario  dell’iniziativa. continua a leggere

Nota sulla poesia e canzone d’autore

Nota sulla poesia e canzone d’autore
di Loredana Semantica
 
 
Al termine poesia si dà spesso un significato non “tecnico” come sinonimo di bello, armonico, sublime ed emozionante. La poesia è nel mondo. Nella vita, nelle persone, nelle cose. C’è poesia in un quadro, in un film, in una melodia, in una canzone. C’è poesia in certi indicibili attimi del cuore. Ma quando si consideri la poesia come forma d’arte allora la cosa è diversa, tale diventa quella modalità di esprimersi in versi che rappresenta la più sublime sintesi verbale nella più armonica forma del dire.
Un’arte che richiede tempo, studio, dedizione, talento e amore per la parola.
Ci sono altri artisti come i  cantautori che utilizzano nella loro arte parole e musica e raggiungono un tale livello di bellezza, armonia e capacità  di donare emozioni (come si ama dire oggi, forse proprio per sottolineare il bisogno di emozionarsi in un mondo sempre più insensibile) che è agevole per chi non ha ben radicato il concetto della poesia come forma, dirli poeti, proprio perché anch’essi “maneggiano” la materia verbale.
Di contro accade che nessuno chiami i poeti cantautori. Succede perciò che i poeti, artisti, intellettuali, studiosi di nicchia e di scarso successo, vengano in certo qual modo scippati della loro arte.  Si sta verificando cioè un furto a coloro che praticano l’arte della poesia su un doppio binario. Dapprima i poeti sono stati defraudati del ruolo di coloro a cui compete dare voce al disagio, alle istanze, ai sentimenti della società in cui vivono o più ampiamente dell’umanità, scippo avvenuto forse al nascere delle canzone d’autore o forse per l’abdicazione degli intellettuali, de facto, scippo avvenuto non perché il poeta abbia smesso di esistere o poetare o studiare ma perché le folle di giovani ascoltano, osannano, seguono, ammirano, amano il cantante d’autore e considerano il poeta come l’iconografia di vecchio studioso, tedioso, bacucco, un po’ folle e un po’ disadattato, che soprattutto niente ha a che vedere con l’idolo dei nostri tempi: il successo, essendo sostanzialmente un emarginato.
Poi si verifica lo scippo dell’arte, perché si pensa di riconoscere il connotato di poesia al testo delle canzoni d’autore, alcuni, è vero, introducono  un criterio restrittivo dato dal valore del testo, dalla profondità di significato e dall’ “autonomia sonora”, cioè la capacità del testo di stare a sé, di conservare una gradevolezza all’orecchio, a prescindere dalla base musicale con cui si esegue.
Questi criteri cercano, restringendo il campo di limitare l’etichetta di poesia ai testi dei cantautori, al testo di alcuni bravissimi cantautori, al testo di alcune canzoni di questi ultimi pregevoli autori.
Mi chiedo perché una volta scelta la strada di considerare poesie i testi delle canzoni si senta la necessità di restringere il campo. Forse per un vago senso di colpa? Per una sotterranea consapevolezza di privare gli amanti della parola  della corona, del titolo dell’alloro?
Se devono dirsi poesie le canzoni, allora io dico che tali saranno tutte, quelle che hanno un testo pregevole e quelle che dicono zum pà pà o dududu dadada dall’inizio alla fine.
Forse per questa strada di estremizzazione può risultare più comprensibile l’introduzione di un ragionamento sul distinguo delle forme artistiche che si fonda sulle loro connotazioni essenziali.
Non è certo il criterio del valore quello che fa di un testo in versi poesia, che un testo in versi resterà poesia anche se per ipotesi fosse poesia di pessima qualità, allo stesso modo non può essere il criterio del valore a fare del testo di una canzone poesia, la canzone resterà tale a prescindere dalla sua qualità perché la sua forma è d’essere un testo con musica.
Per questa strada si comincia a percepire più chiaramente che il discrimine tra le forme d’arte non è il valore, bensì la forma. La poesia è fatta esclusivamente di parola, la canzone è simbiosi di musica e parole.
Perché allora questa tendenza ad etichettare poeti i cantautori?
E’ come quando si guarda un gatto di peluche in una vetrina di negozio e si dice: “Che bello! Pare vero”, e viceversa vedendo un gatto persiano tutto morbido pelo si dice: “Che carino! Pare di peluche”. E’ come se si volesse dire quel tale cantautore:  “E’ così bravo che sembra un poeta”, ma a furia di dirlo in tanti, (perché non dimentichiamo che il cantautore è seguito dalla folle, ha – bontà sua – il successo) la frase, passando di bocca in bocca ha trasformato il verbo “sembra” in “è”, battezzando neo poeti i cantautori del cuore.
Naturalmente reciprocamente a nessuno è venuto in mente di dire che bravo quel poeta sembra un cantante, al massimo si può arrivare ad affermare la sua poesia è musica e qualche poeta ne sarebbe anche ben poco contento, ma questa è tutta un’altra storia tra lirico e antilirico che non è strettamente pertinente a questo discorso.
A ben vedere anche la letteratura in prosa si serve della materia prima verbale, ma a nessuno è venuto in mente di dire i cantautori scrittori, perché l’elemento di affinità tra poesia e canzone non è solo la parola, ma anche  la melodia, l’armonia, la musicalità, la scansione il ritmo. Tuttavia la canzone unisce sempre all’elemento verbale quello musicale prodotto da strumenti. La poesia no. Anche quando venga letta in pubblico, nei reading, con sottofondo musicale non viene cantata, ma parlata, a volte con intonazioni particolari, inespressive, altre recitata con intensità di vibrazioni, con sovrapposizioni di voci e d’echi, ma sempre parlata.
Vero è che con l’avvento della canzone d’autore è stato compiuto un significativo passo d’avvicinamento verso la poesia, favorito anche dal fatto che alcuni testi (solo alcuni) di cantautori suonano a sé come una poesia, oltre ad essere bellissimi nel loro senso, mentre d’altra parte la poesia già da tempo ha perso il suo rigore metrico. Resta tuttavia la musica quale elemento di differenziazione, musica che nella canzone svolge sempre un ruolo importante, se non preponderante, quanto meno paritario rispetto al testo.
In altri termini se vogliamo inserire la canzone d’autore nella poesia dobbiamo disconoscere prima gli elementi che differenziano le due forme d’arte, forzarli per la canzone d’autore, aprire una particolare sezione che potremmo dire  “poesia cantata”, includervi  le opere dei nostri beniamini, restando poi sempre col dubbio di avere aperto le porte ad una poesia con la protesi del pentagramma, delle corde, delle note, dei pianoforti e delle chitarre.
Il che, nella mia ottica, non è nemmeno riconoscere i meriti di chi ha fondato un nuovo modo di fare canzone, di fare musica, di fare arte, ma volendolo esaltare, sminuirlo.
A conclusione penso sia chiaro che ammiro anch’io i cantautori, penso che la loro canzone sia d’alto rango per profondità di dire (più precisamente cantare) e sentire, ma l’aver scelto la musica come veicolo per accogliere e far muovere nel mondo le loro parole ha richiesto un lavoro artistico di tipo diverso da quello che svolge un poeta, un’opzione artistica diversa da quella operata dal poeta.
Se poi vogliamo giungere ad affermare che oggi i veri poeti siano  i cantautori, potremmo anche ipotizzare che i poeti di sole parole possano ulteriormente scarseggiare, fino a sparire surclassati, privi di riconoscimento, defraudati.
Mi chiedo ancora se ciò sia giusto, ancora di più se sia possibile, nonostante fioriscano in rete e fuori, segretamente o sotto la luce del sole, poesie in ogni dove. Come un bisogno del cuore. Senza musica solo parole. 

 
 
Depoetica
                
Non posso altra musica
che di parole sole
chiedo scusa pertanto alle allodole
ai violini ai pianoforti alle chitarre
a tutto l’armamentario dei concerti
ai giovani sugli spalti
al pentagramma
chiedo scusa per la bocca
di piccolezza povera
per le labbra
per le corde vocali limitate
per gli occhi che leggono ininterrotti
per la scrittura inutile e incessante
reietta ripudiata
rinnegata anche nel nome
dalle folle 

Parole e cicale (Diario poetico di una vacanza)

Mi disse tempo fa un poeta che un giorno sarei stata in grado di modulare a tal punto la mia "voce" che avrei potuto dire poeticamente qualunque cosa avessi voluto. Mi è tornata in mente questa frase, mentre elaboravo giorno per giorno il mio" bollettino ferie" negli "stati" che ho pubblicato su facebook dal 16 luglio a lunedì scorso.

Ho completato il lavoro di assemblaggio di quei"bollettini ferie" e di alcune mie foto elaborate digitalmente e nell’insieme ho composto la mia quarta raccolta visual poetica dal titolo : "Parole e cicale" (Diario poetico di una vacanza).

Non so se quel poeta intendesse un lavoro, una voce, un risultato di questo tipo, intanto l’ho pubblicato, sperando meriti il tempo che qualcuno ad esso vorrà dedicare.

A questo link su issuu.

http://issuu.com/loredanasemantica/docs/paroleecicale

Loredana Semantica – Un lavoro da killer ben fatto

Immensamente grazie a FemminArt per questo.

Loredana Semantica è soprattutto musicalità del verso prima ancora che intrigo di parole e figurazioni, semantica appunto. E’ gorgheggio di un’ipotesi antica, che si specchia nella natura e nella sua cadenza e che fluisce nel nome della sacralità del respiro, “Tutto è benedetto, nel silenzio esatto, dei miei sguardi..”. Come pure nelle sue foto, poesie visive, mute, si accavallano fotogrammi d’incanto che insistono in una sequenza quasi volessero scomporre il lampo visivo e attrarre l’attenzione sulla magia del vivere. “Vorrei dire una rosa, a volte..”. Dire una rosa.

Eppure la poesia di Loredana viene definita di “resistenza”, intesa come lotta strenua di contrapposizione, empito che ogni poesia dovrebbe avere, sempre, ma certo, a volte la contemplazione prende il sopravvento, da sembrare una fuga nell’empireo della perfezione inesistente. Loredana si autoelide da questo rischio, “appena nate, le poesie sono già vecchie..”, la tentazione d’estasi è subito fugata per “un brivido di schianto, il tetano che avanza..”. E’ impossibile per il poeta, far finta di niente. “Ombre ho nel sangue.. aggrediscono l’orecchio.. topi in tana corde lise.. segatura del pensiero, sbriciolato tra le spire..”. E’ il momento in cui il poeta si immola, nasconde il suo pensiero nella discrasia di una patologia propria, personale, per lasciare il grido al suo urlo, senza far sì che il mondo si neghi alla bellezza.

“E noi scrivevamo poesie..”, mentre la bestia latrava, “..passava col mitra, di striscio addossando la canna, la pistola alla nuca e sparando”. Silenzio, non può che esservi silenzio, contrito, di fronte allo stupore, dell’infranto iato, sperato fino all’ultimo, fra l’appoggiar la canna, e fare fuoco. “..a miliardi di lapidi e di croci, di dolori perfetti ripetuti..”. Il compito del poeta è di una essenzialità portante per l’universo stesso, e non ci si riferisce certo alla tiratura, ma alla capacità del dire, all’enorme responsabilità del dire, la bellezza come la stanchezza, “..al mistero dei petali in corolla..”, regale sinfonia, e la perfetta inutilità delle “..sgolate di civile impegno..”, ma in sordina, perché tutto sembri un “..colore, carnoso di velluto da baciare..”. “Un incanto più che un fiore”.

Loredana è un poeta.

Divagazioni in blue

Roberto Matarazzo ha creato questo bel foglio colorato "divagazione in blue" per ispirazione dal mio testo "Lui ha un segreto a scomparsa" incluso nella mia terza raccolta visual poetica "Ora pro nomi(s)"

Infinite grazie a Roberto.

Lui  ha un segreto a scomparsa. Lei ne raccoglie le gocce. Piove stanotte. Sui fiori le cosce. Nude sui fianchi Penduli seni ondeggianti. Le radici frementi hanno un nucleo vitale. Sulla neve una macchia. C’è del rosso nel sangue. Un ricamo sfolgorante di brina. Filigrana di sangue e velluto. Forse un sasso che sboccia. Di petali e luce. Fa la gara col sole.

Lei lo avverte. Fa la mira più alta. Lui ha uno sguardo preciso. Verso un punto diretto del cielo. Non nasconde la bocca. E’ che lei non la vede. Ha la guardia serrata. Più dura che chiusa. Solo gli occhi a brillare farina. Lui ha le mani blindate un esempio di muro. Non fa doni. Pressa sempre bisogni. Lei li vede e soccombe.

Lui ambisce di tutto. Lei di star bene. Non si vedono oltre. Lei parla piano piega sempre la testa. Non s’arrende. Lui parla forte alza sempre la testa. Non s’arrende. Si sorridono al buio. La promessa del fuoco. Un anello che lega. E’ un battesimo il primo.  Si attendono al varco . La foce del delta. Si chiamano  a volte  svettando distanza.  Allusioni nel vuoto senza nomi.

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