Novembre di zucchero. Un racconto di Loredana Semantica

Benedetta il primo di novembre sentiva che si avvicinava la festa. L’aria frizzantina all’imbrunire si riempiva di fumo e dell’odore di caldarroste. Spuntavano le bancarelle dei giocattoli e caramelle. C’erano luci, musica, tutta un’animazione nelle strade, un viavai di gente con i pacchi e i cartocci di frutta secca: a simenza, a calia, i favi sicchi, a nucidda americana, i pastigghie *. I bambini passavano tenuti stretti per mano dalla mamma o dal papà, altrimenti nella confusione si perdevano. Nell’altra mano tenevano uno stecco di legno attorno al quale in cima era avvolta una nuvola bianca di zucchero filato. Mangiavano la nuvola, affondando il naso nel biancore e spalancando la bocca per accogliere la matassa dello zucchero, che, prima si addensava dove avevano dato il morso in grumo dolce, poi si scioglieva in bocca mentre naso, bocca e mani diventavano appiccicosi di zucchero, quando non subivano la stessa sorte i vestiti propri o i soprabiti dei passanti. Era uno spettacolo vedere quando preparavano lo zucchero filato. Di solito lo facevano presso le bancarelle che vendevano dolci, torroni, caramelle. Si servivano di una specie di pentola gigante a forma di tortiera per ciambelle, nel supporto centrale, rialzato rispetto al fondo, versavano lo zucchero che, riscaldato, cominciava a filare e si raccoglieva mano mano sul bastoncino di legno a formare la matassa sempre più grande, più grande fino a sembrare una nuvola di cotone. Anche il resto della bancarella era un piacere per gli occhi: l’ossa e motti**, i biscotti di miele, durissimi cilindretti lunghi arrotolati in due spirali opposte, i totò al cioccolato e quelli bianchi, col cuore morbido e fragrante, le ghirlande cellophanate di caramelle, i leccalecca, le caramelle sfuse di tutti i colori, gommose o dure, le gelatine di frutta, il torrone bianco, il torrone scuro di mandorle, quello di nocciole, ricoperto di glassa ai vari gusti, i torroncini avvolti nella carta luccicante, cioccolata a tavolette più o meno grandi, il nocciolato spezzato a grossi tranci, le meringhe dai colori pastello che sormontavano i coni di cialda croccante a imitare i gelati, i marron glacé, i ceci e le mandorle ricoperti di zucchero, le caldarroste, la frutta secca. Una festa della gola e dell’abbondanza. Le bancarelle più attraenti però erano sempre quelle dei giocattoli. Il mistero era che papà e mamma tirassero sempre via Benedetta  senza comprarle niente, lei perciò si doveva accontentare di guardare l’esposizione e i bambini coi loro giocattoli in mano.
L’indomani era il giorno dei morti, la festa cominciava già la mattina. Il papà e la mamma di Benedetta immancabilmente andavano al cimitero portando con sé le figlie Eleonora, la maggiore, e Benedetta, la più piccola. Per le bimbe il cimitero non era un luogo triste. Affollato di piante, alberi e persone, lo vedevano più simile a un parco che a un luogo di silenzio e commemorazione. Tutt’intorno il cimitero era delimitato da un muro alto in antica muratura, si entrava da un ingresso imponente con tre archi, ma quello era l’ingresso principale, ce n’erano altri secondari e nel giorno dei morti li aprivano tutti. Da quale entrare dipendeva da dove si trovava parcheggio.
Posteggiare la fiat 600 blu era un’impresa, ma in qualche modo un buco lo trovavano, tra lo strombazzare delle auto e i pedoni a frotte. Prima di entrare al cimitero c’erano tante bancarelle di fiori di tutti i tipi e colori. Il papà di Benedetta prendeva sempre sei garofani rossi per la sua mamma. Poi, camminando di fretta per i viali del cimitero, si recava al colombaio dove c’erano i loculi di suo padre e sua madre. Vicini, ma non troppo. Benedetta lo seguiva, ma nel frattempo aveva modo di osservare ai lati dei viali le cappelle dei defunti. Alcune modeste, altre grandiose, tutte guglie, cupole, cuspidi, come piccole chiese. Poi i decori, i vetri colorati, gli stucchi, le inferriate. Le statue soprattutto erano affascinanti. Quelle degli angeli in tutte le pose e dimensioni, così ieratici e bianchi, le madonne a mani giunte, bellissimi bimbi che sembrava dormissero un loro sonno di pietra, adagiata la testa su cuscini ornati dalle nappe, la malata nel suo letto con le coperte poggiate fino ai fianchi, il busto eretto e le braccia protese ad abbracciare la morte, le statue dei soldati caduti con la divisa le armi, l’elmetto. Le tombe nella terra erano quelle che maggiormente la inquietavano. Pensava ai corpi abbandonati all’umido, al freddo degli inverni, coperti da implacabili lapidi di marmo sulle quali si leggevano dediche struggenti.
C’erano tombe curate coi fiori freschi, le piante, la teca di vetro che conteneva la Madonna benedicente, un Cristo pietoso o sofferente. C’erano tombe trascurate, il marmo spezzato, le lettere della lapide staccate, la costruzione cadente. Similmente le cappelle.
Giunti al loculo della nonna, Eleonora, Benedetta e la mamma dicevano le preghiere. Tre “L’Eterno riposo” e poi si concludeva “Anime sante, anime purganti, pregate Dio per noi che noi pregheremo per voi affinché Dio vi dia presto la grazia del Santo Paradiso”. Papà pregava mormorando a fior di labbra, un po’ in disparte, da solo. I colombai erano a più piani e si accedeva salendo le scale. Nei vari piani e per le scale era tutto un andirivieni di visitatori.
Poi si tornava a casa e veniva il bello. C’erano i doni che avevano portato i morti. Non mancava mai qualcosa per Benedetta ed Eleonora che fosse vestiario, giocattoli o dolci. La volta che Benedetta fu sopraffatta dalla sorpresa fu quando ricevette una bambola bionda, vestita di verde e ornata di pizzi, corredata di carrozzina per portarla a spasso. La carrozzina con la capote color turchese era perfettamente dimensionata alla statura di una bambina. Anche Eleonora ricevette una bambola, la sua però aveva i capelli neri, il vestito rosso. La capote era blu. Giocarono tutto il giorno, divertendosi. I cugini maschi nel frattempo, si sparavano per finta coi i botti veri delle caps* nelle pistole di latta e nei fucili argentati. Anche loro felici, schiamazzanti, accaldati.
Tutti i bimbi di quegli anni pensavano che i morti fossero buoni, portavano dolciumi e giocattoli, anzi che i defunti fossero persone care, alle quali volere bene perché loro si ricordavano dei vivi e lo dimostravano portando loro doni.
Benedetta, diventando grande, vide sbiadire queste tradizioni e sorgerne altre che mettevano i cari defunti sullo sfondo, ricollegandoli più alla perdita e al dolore che al ricordo e ai regali, per questi ultimi si preferivano figure più colorate, allegre, fantasiose o pittoresche come Babbo Natale o la Befana.
Poi si diffuse anche la festa di Halloween che nella notte del 31 ottobre impazzava tra i giovani con tutto il corredo dei simboli suoi propri: le zucche, i dolcetti o gli scherzetti, le mascherate da creature della notte.
Benedetta ebbe due figli: Francesco e Nicolò, detto Nico. Cercò di trasmettere loro un’idea positiva dei defunti facendo dei doni nel giorno del due novembre, dicendo “Questi sono regali da parte del nonno Vito e della nonna Pina”, ma non c’erano più le bancarelle e la festa, non c’era il cimitero monumentale, perché la famiglia aveva cambiato città, non c’erano i viali, le panchine, le statue. I ragazzi non si recavano volentieri al cimitero e tendevano a defilarsi, tutti presi dagli impegni tra giovani: serate e amici.
Il due novembre divenne sempre più un’incombenza per adulti. Una visita al cimitero, fiori sulle lapidi, la tristezza del ricordo e la solitudine della mancanza. Benedetta si rendeva conto che di quella festa del due novembre di quand’era bambina s’era perso tutto il fascino, s’era spenta la magia.

* semi di zucca salati, ceci tostati, fave secche, noccioline americane, castagne secche
** ossa dei morti, dolci tipici che si preparano nel periodo della commemorazione dei defunti in Sicilia, come anche i biscotti al miele e i totò
*** munizioni per armi giocattolo

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