
Camilla amava i gatti. Ne ammirava il corpo proporzionato e flessuoso, la piccola testa triangolare, gli occhi gialli, verdi, azzurri, tutte le fessure oblunghe delle pupille piantate nel buio a scrutare la notte. Bello il loro pelo variopinto, la sua lucentezza briosa, dalle tonalità del bianco, al rosso, al nero, declinato in tutte le molteplici sfumature del marrone, gli ineffabili grigi. Affascinanti i balzi eleganti dei gatti in barba a tutte le leggi della fisica, la disinvolta indifferenza del loro incedere nel mondo e di contro i picchi di curiosità sfacciata e intrigante. Lo strusciarsi ruffiano contro le gambe, le fusa, le onde positive di vibrazioni che queste diffondono, il magnetismo animale della presenza, il sicuro piglio del passo sui cornicioni a chilometri dal suolo, la capacità di giocare con un filo di lana, una pagliuzza d’erba, una foglia secca.
Avere davanti agli occhi un piccolo felino, con i pregi di quelli selvaggi e senza i problemi che quelli darebbero, era per Camilla un incomparabile regalo della natura. Guardare giocare due micetti la riconciliava col mondo, come ammirare un albero nel suo rigoglio, un fiore nel suo splendore. Era una sorta di danza, una fusione di tenerezza e bellezza, dove la morbidezza del pelo e i corpicini dai movimenti incerti e goffi si mescolavano nel gioco all’esercizio per la lotta necessaria alla vita futura.
Camilla ne aveva avuti tanti gatti nel suo giardino. Fino ad una ricca colonia di sedici animaletti, molti anni prima. Ancora adesso ne aveva intorno. Da quando suo marito Oscar aveva montato una tettoia di policarbonato sul gazebo del giardino, i gatti del quartiere avevano deciso che quello era un luogo congeniale. La tettoia non era spiovente, ma piana, come Oscar avesse potuto montare una tettoria piana in un gazebo progettato col tetto spiovente era un miracolo di inventiva. Come avesse potuto sormontarla da un telo di polietilene era un mistero ancora più profondo. Il telo risultava praticamente inutile, esteticamente orribile, ed era stato strappato dal vento in più punti.
A dispetto di ciò i gatti avevano eletto quel luogo come prediletto. Il telo di polietilene era diventato un tiragraffi ideale. C’era un gatto bianco latte pezzato a macchie grigie, con una testa quasi tonda e l’aria soddisfatta di chi non teme nemici, che amava schiacciare un pisolino nell’angolo sinistro della tettoria. Un altro tigrato rosso tutto pelo passava ogni mattina, calpestando con le zampette guantate una passatoia in ferro nero di appena otto centimetri. Non mancava di farsi vivo uno splendido gatto nero, lucido di pelo e muscoloso, simile a una pantera in miniatura, con magnetici occhi gialli. Compariva in modo spettacolare, ergendosi statuario in tutto il suo splendore. Almeno altri due o tre felini bazzicavano quel posto tra i quali un elegante persiano grigio polvere, probabilmente non randagio. Era diventato un luogo trafficato come il corso principale di un paese. Non potevano mancare le zuffe animate da soffi, zampate e miagolii che si concludevano con l’allontanamento dell’ultimo invasore. A Camilla non erano chiare le dinamiche degli scontri per cui qualche volta restava alla finestra per studiarle. Il gazebo era antistante alla finestra, la tettoia da quel punto di osservazione appariva come un palcoscenico.
Camilla amava i gatti, ma non solo. L’amore per gli animali le era semplicemente connaturato, pensava che fossero parte del creato e dovessero essere rispettati come abitanti della terra, espressione della natura e, se domestici, come amici.
Per questo motivo Camilla, quando era bambinetta di sette o otto anni non capì perché in quella bella pineta in montagna, con la giostra e l’altalena, le panchine e aiuole, un posto ideale per divertirsi e giocare. Non capì dicevo, perché quel giorno un gruppetto di tre bambini, appena più grandetti, torturò e uccise un passerotto che aveva avuto la sventura di finire tra le loro mani. Dopo esserselo passato l’un l’altro tirandolo come una palla, l’ultimo del gruppo lo lanciò in aria e gli sferrò un calcio mandandolo a sbattere contro un tronco. Neanche il tempo di un grido. Camilla rimase attonita e sconvolta. Questo episodio si stampò indelebilmente nella memoria, finché fu capace di darsi ragione di questa crudeltà.
Divenne grande. Allora capì che quei ragazzini si dicono balordi, e più in generale che gli uomini si dividono in due categorie i buoni, che operano per il bene e i cattivi, capaci di gesti simili, non soltanto con le bestie, ma anche con i simili. Capì che c’erano mille sfumature tra questi estremi. Di solito chi era crudele con gli animali non era benevolo nemmeno con le persone, solo che su queste avesse un briciolo di potere. Ne concluse che la vera natura di una persona emerge col potere. Decise che avrebbe imparato a riconoscere gli uomini e avrebbe sempre operato perché il potere fosse dato ai buoni. E così fece. Indicibile impresa.