Ogni scrittore compie, scrivendo, un’operazione con la quale consegna al verbo il proprio corpo, lo traduce in segno, storia che racconta; il poeta compie analoga operazione, ma scava più in dentro, più indietro in una ricognizione lenta e implacabile che attinge ai vasi della memoria. Una specie di fame. Come un cane al bisogno riporta alla luce l’osso in precedenza sepolto scavando nella terra, allo stesso modo il poeta cerca il suo osso-mondo e riemerge dalla ricerca portando di traverso nella bocca il suo frammento d’umanità. Per questo ciò che riporta odora di profondità.
Tutto questo emerge nella consegna poetica di Samperi che accosta maggiormente alla terra il suo dire scegliendo per “Sarmenti scattiati”, l’opera con cui esordisce sulla scena poetica, il dialetto della sua terra; una lingua, quella siciliana, di parole forti e chiuse senza speranza nelle vocali finali, suoni che riecheggiano l’anima del popolo che le ha “macerate” in bocca, gente di poche e pesanti parole, gravide di tutta la forza d’una terra isolana spaccata dal sole.
Emerge nei testi di Samperi quel “legame viscerale tra autore e opere… il proprio dell’autore nonostante l’autore” (S. Guglielmin) che dice di un’età pregressa felicemente agreste tra le viti e i suoi frutti, i sarmenti e il vino, nei campi arati di fresco, dominati dall’Etna sempre dritta di fronte al pagliaio tra fumi e “nivi” (neve), ma il vulcano non ha più quegli occhi ch’erano specchio del ricordo fantasmatico, del suo innesto che è nella terra e nella memoria.
Samperi s’interroga sul senso dell’esistenza, ne denuncia la caducità intrisa di sofferenza, espressa in modo più consapevole e dolente in “Aria sbindata” ma presente nondimeno, sebbene più sommessamente, anche in “Sarmenti scattiati”, dove tuttavia si avverte, a tratti,un’esitazione o più esattamente una forzatura , possibile segno di pudore o di una materia ancora bisognevole nei suoi contorni, più che nel nucleo, di scomposizione ulteriore e macerazione prima di essere humus maturo fecondo di precise parole.
Samperi sceglie per le sue raccolte titoli semanticamente e foneticamente deliziosi che però non anticipano nulla della poetica di abbandono e malinconia che pervade i testi, dicendo così bene in poesia la finitezza, la consapevolezza dell’inafferrabile, quello squarcio che è la separazione ineluttabile, l’attraversamento senza rimedio di ogni essere, la lontananza che ci rende al tempo stesso: orfani, esiliati, inconsolabili, bisognosi della parola balsamo che ricucia gli strappi e riaccosti i lembi di ferite inferte e converta in pacificazione il dramma del vivere e morire.