Sull’amore potrei dire molte cose
che a volte è dolce ad esempio
e gronda dalle ciglia miele
oppure fonde come cioccolato al sole
che strugge i piccioncini in lontananza
che stravolge la mente degli amanti
tanto più violentemente quanto più è negato
dall’amato dalla mente o da varie circostanze
potrei dire ancora che consuma
e logora la vita al punto
che sono più bianchi i capelli delle madri
il loro volto in genere ha più rughe.
Potrei altrimenti dire che mi sta sul cazzo
quello che non c’è naturalmente tra le gambe
quello ideale che si cita nella locuzione popolare
per esprimere insofferenza insopportabile.
Ricordo la prima volta che ho sentito l’espressione
una collega l’ha rivolta a me personalmente
io novellina di lavoro non seppi nemmeno replicare
carente certamente di bagaglio culturale.
La verità è che bisogna esercitarsi ad essere volgare
come in amore esercitarsi ad amare
e raggiunto il livello di saturazione
traboccare.
Potrei dire ancora che non è gentile
come dice Livio nella sua scrittura
che morde alla testa d’Ugolino
che divora ogni ragione in gran tempesta.
Potrei dire ch’è feroce
che spende ogni risorsa del respiro
che s’abbarbica impossibile alle porte
che s’addossa e freme e fionda
che precipita di doglia
e scrive
Vorrei essere un papavero
coi suoi petali rossi velati
fragrante di peli sul gambo.
Vorrei sfiorire nel vento
in un alito d’oppio
innamorato del grano.
Oppure quel minuscolo uccello
annegato nel secchio dell’acqua
dove s’abbevera a sera il mio cane
un fagottino di piume
così piccolo e fragile
che la carcassa di sfalda
senza nemmeno un fetore.
Con questo racconto ho partecipato all’omonima iniziativa del blog Viadellebelledonne
Dalla piccola stazione di Stonehaven tra la nebbia e i richiami dei gabbiani, percorremmo tre miglia a piedi, lungo un viottolo sterrato, stretto e scivoloso. Tra rocce, grotte e rupi scoscese che precipitano a picco sul mare del Nord, arrivammo finalmente al Castello di Dunnottar…” La nebbia si diradò e cominciò a nevicare, la neve cadeva a piccole sfere soffici e fredde che si posavano col fruscio dei lenzuoli pregiati di seta quando la mano li muoveva o quando Marilina, nel sonno, voltandosi su di un fianco, sbrigliava le cosce morbide dal loro abbraccio avvolgente di crema. Ci sedemmo su una roccia piatta, a riprendere fiato, a guardarci attorno, a cercare con gli occhi la secolare magnolia. “Vuoi una mela?” dissi porgendo il frutto a Marilina. Marilina si commosse per il delicato gesto di quotidianità. L’offerta semplice di cibo a lei che in quel momento niente riusciva a mangiare. Eravamo stanchi io e Marilina del lungo viaggio. In aereo, treno, automobile e con ogni mezzo di fortuna. Non era stato un bel viaggio. Dagli Stati Uniti traversando l’oceano eravamo giunti in Scozia per un patto romantico: recarci lì al castello di Dunnottar, il luogo che dava il titolo al best sellers internazionale, galeotto del nostro incontro. C’eravamo incontrati un anno prima a New York in libreria, mentre lei cercava un libro che l’attraesse ed io un saggio di storia medievale. Le avevo rivolto la parola per un’indicazione banale ed ero rimasto incantato dagli splendidi occhi verdi di Marilina. Di un brillio particolare. “Dio” pensai in quel momento “in questo sguardo verde mi ci potrei perdere per l’eternità”. Ero sgomento, come sull’orlo di un precipizio. Pur di non interrompere quel contatto visuale, continuai a parlare di tutto quello che mi passava per la mente. Le consigliai il libro di Karen Kleenex “Al castello di D”, una delicata storia d’amore ambientata in pieno diciassettesimo secolo che percorreva con fedeltà di particolari le intricate ed oscure vicende storiche del castello. Poeticissimo in particolare il racconto dei due amanti osteggiati che giuravano reciprocamente di mai separarsi ai piedi dell’albero di magnolia piantato da loro stessi in cima al promontorio. Mi sentivo stupido nel raccontare certe cose, ma non potevo farne a meno di cercare il suo ascolto, la sua vicinanza, come stordito e affamato dal verde di quegli occhi. Ci lasciammo con la promessa di ritrovarci. Per parlare del libro naturalmente. Una volta che Marilina l’avesse letto. Ci ritrovammo perdutamente innamorati. Lei dimenticò William, il suo millenario fidanzato, io Erika, mia moglie. Un matrimonio ormai liso da anni di indifferenza e di crisi. Erika, rampolla ricchissima di una ricchissima famiglia pensò bene di farmela pagare, perseguitandomi senza alcuna tregua ed esclusione di colpi. Non ultimo quello di scatenarmi contro le figlie che adoravo. Ero distrutto dal bisogno di difendere l’amore ritrovato, dal desiderio di non perdere l’amore delle mie bambine e dalle battaglie legali estenuanti. Per questo, anche se non era ancora la stagione calda, io e Marilina avevamo pensato a questo viaggio, ne sentivamo un bisogno quasi fisico: staccare da tutto quello che era orpello, ostacolo al nostro essere uniti. Adesso finalmente eravamo lì, ad un passo dal nostro sogno, caparbiamente convinti che una romantica ingenua promessa potesse capovolgere ogni cosa. Era la fine di marzo, nonostante avvertissimo il freddo, non si stava male tra i ruderi del castello di Dunnottar, la neve ovattava ogni suono, il rumore del mare, il richiamo dei gabbiani, come se qualcuno avesse abbassato il volume del sonoro di un video Nell’aria una scia dolce di profumo ci faceva da guida. Ci alzammo per raggiungere l’albero incantato. Tra le rovine s’ergeva scuro e magnifico. Le grandi foglie lucide e verdissime. Non c’erano fiori sull’albero ma l’aria, la neve, il respiro odoravano come se l’albero fosse splendidamente in fiore. All’ombra della sua chioma avremmo giurato di restare per sempre uniti e così sarebbe stato. Entrammo nello specchio d’ombra della magnolia e l’uno di fronte all’altro e ci prendemmo le mani nelle mani, guardandoci negli occhi in una mutua intesa d’amore. Sotto l’albero non c’era neve, non c’era freddo, né pensieri, né dolore. Si stava così bene che io e Marilina scorgendo un incavo adatto formato dai solchi profondi delle radici che s’interravano, ci accucciammo ai suoi piedi, le spalle poggiate ad un ingrossamento legnoso che ci sosteneva, e restammo abbracciati nel covo per un tempo che non saprei quantificare. I soccorritori trovarono così i nostri corpi senza vita. Abbracciati allo stesso modo. L’aereo che dagli Stati Uniti ci aveva portato in Europa era precipitato. Gli incaricati separandoci per infilarci nei sacchi di plastica ebbero netta la sensazione di commettere in quell’atto un inspiegabile sacrilegio. Inspiegabile come il sorriso che attoniti rimasero ad osservare sui nostri volti.