Ho bendato gli occhi

Ho bendato gli occhi
perché non siano stretti
ad una ad una togliendo stellette.

Quando precipita il reciproco volo
quando riprende il silenzio
non ci sono più alberi attorno
né rocce
labbra cerchi o maestri
nessun abbraccio che conti
solo buchi a nascondere
grossi conigli.

In ginocchio sulla terra
passa come nuvola
un’ombra immensa.

Mio padre diceva

Mio padre diceva
che uscivo solo con la pioggia
come fanno nell’erba fresca di goccioline
le chioccioline
che nel dialetto della sua terra
sono chiamate ntuppateddi.

Lo diceva perché non mi vedeva spesso
non posso certo dire che lo andassi a trovare
di frequente
lui a suo modo con l’ironia pungente
del paragone
di un mollusco dall’uso così chiuso
lamentava la mia assenza.

Adesso i suoi occhi sono spenti
vedono attraverso i miei
qualche volta all’improvviso sento che mi chiama
come l’altro ieri che mi ha detto col pensiero
che mi aspetta ancora
anch’io gli ho risposto telepaticamente
che stavolta quando andrò da lui
staremo bene e per sempre
insieme.

 (nel giorno del suo compleanno)

Ho stimato amici

Ho stimato amici che non mi pensavano nemmeno
quando non sputavano veleno
come se lo stesso orizzonte
l’aspirazione al bene
il lavoro onesto
dignità onore e verità bastassero alla comunanza.

Col tempo mi accorsi dell’errore e cambiai opinione
è amico chi sta dalla tua parte
nel bene fa il tuo nome quando occorre
o tace quando serve
si dispiace se stai male
ti aiuta come può
ti pensa almeno un poco
è contento se le cose vanno bene.

Più di recente ho raggiunto un’altra consapevolezza
gli amici sono una ricchezza
e l’accumulo è proficuo
nel tempo del virtuale chi ha tanti amici è popolare
ma ci vuole talento per coltivare le amicizie
chiamare spesso chiedere le ultime notizie
informarsi di salute madre moglie
del lavoro
di figli acquisti viaggi e interessi.

A questo punto ogni calimero
si arrenda all’evidenza
non è che sia piccolo brutto sporco o nero
è carente come me
soltanto di talento.

Di certo la poesia

Di certo la poesia mi scuserà
se oggi non ho voglia di festeggiarla
non meno la primavera
credo però che a nessuna delle due
importi molto della festa
men che meno della mia
l’una tutta presa dall’equinozio
l’altra votata all’assoluto
vanno indifferenti al mondo
tenendosi per mano.

A proposito di valore

A proposito di valore e patrimonio
mai come adesso incombe
tutto il peso della carta straccia
i sacchi caricati sulle spalle
rovesciati nell’inceneritore
e con loro la memoria gli uomini le azioni
tutti i contorcimenti di una vita
nel ritmo incessante della storia.

A proposito dei poeti
la verità è che non sono vivi
c’è un annuario in cielo dei defunti.

Mi viene da ridere

Mi viene da ridere
del mio inglese sghimbescio
di tutti i miei direttori
dell’italiano ribelle
a cominciare dal ciuffo.

Oggi ricordo perfettamente
quel giorno che mia madre
per l’onda sull’occhio
per la sfida del soffio
in terrazza un giorno di settembre
lo tagliò con forbici precise.

Alle fine le rose

Alla fine le rose si rivelano stucchevoli
quei loro petali stupendi
la cui grazia è impossibile da possedere
sfiorisce irrimediabilmente
si vorrebbe sbriciolarle a volte
stringendole nel pugno
in odio alla bellezza
quasi a distruggerla nel mondo
come tanti fanno nella vita
è così che si spalanca il baratro
con due dita  lerce d’urina
dove si sprofonda.

La Venere marchiata

venere

foto di Sergio Gabriele - FemminArt e Migranze

Intorno al 1482 Botticelli dipinse “La nascita di Venere”. Un’opera che esalta la bellezza, la grazia, l’amore. Nel famosissimo dipinto è rappresentata una figura femminile nuda che sembra trasportata verso l’osservatore dall’acqua. La conchiglia fa da sostegno e barca, l’accoglie, come un’opera d’arte il suo piedistallo. Culla è la conchiglia, il corpo femminile la sua perla. Liscia, candida, levigata nella sua forma, snella e pudica, la dea è preziosa, ma senza fronzoli e sovrabbondanza, solo candore e riflessi di luce.

E’ incredibile che resti eretta sul quel sostegno galleggiante e incerto, è come se fluttuasse angelica tra il soffio di creature alate, i fluenti capelli nel vento, e una primavera che accorre con un  drappo a coprire la dea nascente. Un’icona universalmente riconosciuta di bellezza del corpo femminile a cui si associa l’idea dell’amore spirituale piuttosto che passionale per la semplicità della nudità che si offre allo sguardo e nel contempo copre gli attributi sessuali, un corpo senza opulenza ma ricco di grazia.   Continua a leggere “La Venere marchiata”

Commento all’opera “Senza titolo” di Maria R. Orlando

orlando

 

Opera: “Senza titolo” di Maria R. Orlando ,tecnica mista su tavola 70×100

L’opera prende dal bianco i suoi colori, ché il dolore ha nel suo punto più acuto un assoluto candore, quello che rapisce i gessi, i segni, ogni parola, tutti i gesti del corpo. E’ quando il tradimento dei sensi conduce alla violenza, quando perde significato la parola protezione, quando nemmeno il senso di possesso ha ragione. E le braccia si fanno mulini, le gambe una pressa. A pugni e schiaffi.  E le armi si fanno altro strumento che propagano una volontà di annientamento. Fucile o pistola o pugnale sono anch’essi dentro, operano presenza in quel colore di sfondo che è il blu-nero freddo e profondo del ferro.

C’è poi l’odio del giallo a pennellate sparse sul piano visuale della materia. Il bianco predomina tuttavia, perché  è nel bianco che si raccontano le sclere di donne aggredite, pugnalate, in ginocchio ferite, violentate, uccise. Mentre il rosso più appariscente è in un solo segno che rimanda al sangue, quasi una croce al centro di un letto – ospedale – obitorio – lenzuolo.

E’ così che avviene, come oggi, ogni tre giorni, una rosa che cade. Quasi una guerra, che ci son uomini portatori del male, indegni di essere uomini, pervasi da una mancanza di sé così dilagante da essere incapaci di accettare un rifiuto, di riconoscere alla compagna, moglie, amante, fidanzata, la natura d’essere libero, di determinare la propria vita, i propri bisogni, primo tra tutti la ricerca della felicità, di compiere le proprie scelte anche in opposizione al volere del maschio, di sbagliare anche, se occorre, di ravvedersi pure. E’ così che alcuni uomini vorrebbero le proprie donne, schiave tenute alla catena dei propri ceppi e nel gesto stesso di sopraffarle, essi danno ragione alle loro vittime, martiri della violenza maschile, dimostrando agli occhi del mondo ch’erano non uomini, ma esseri  immondi da cui fuggire.

Loredana Semantica

l’opera parteciperà all’esposizione contro la violenza e il femminicidio che si terra l’8 marzo 2013 presso l’ex monastero benedettino di Monreale (Palermo)

La sala dell’autopsia

Allora ero giovane e avevo la forza di dieci.
Per ogni cosa, pensavo. Benché parte del mio lavoro
la notte fosse di pulire la sala dell’autopsia,
una volta che il lavoro del medico legale era finito. Ma di tanto
in tanto staccavano prima, o troppo tardi.
E lasciavano ahimè fuori delle cose,
sul loro tavolo speciale. Un bambino piccolo,
immobile come pietra e freddo come neve…. Un’altra volta
un nero enorme dai capelli bianchi a cui avevano squarciato
il petto. Tutti i suoi organi vitali
buttati in una casseruola accanto alla testa. L’acqua usciva
dalla pompa, le luci fiammeggiavano.
E una volta c’era una gamba, una gamba di donna,
sul tavolo. Una gamba pallida e ben fatta.
Sapevo di che si trattava. Ne avevo già viste.
Questa però mi fece restare senza fiato.

La notte, tornato a casa, mia moglie mi avrebbe detto
«Tesoro, le cose si stanno aggiustando. Daremo questa vita
in permuta, in cambio di un’altra». Ma non era
così facile. Mi avrebbe preso la mano
tra le sue e me l’avrebbe tenuta stretta, mentre io sprofondavo
sul divano e chiudevo gli occhi. Pensando… a qualcosa.
Non so a che cosa. Ma le avrei lasciato portare
la mia mano al seno. A quel punto
avrei aperto gli occhi e fissato il soffitto, oppure
il pavimento. Allora le mie dita deviavano
verso la sua gamba. Che era calda e ben fatta, pronta a fremere
e sollevarsi leggermente, al tocco più leggero.
Ma la mia mente era confusa e agitata. Nulla
stava accadendo. O tutto. La vita
era una pietra, che stritolava e aguzzava.

Raymond Carver

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