Stati minimi

sei solo un battito. un attimo che transita. il riscatto obliterato delle ciglia. schiocco risolto a convertire. ti abita un disordine beato che mai si mostra ma per rivalsa uccide.

è un dentro che commuove. quel mare indicibile. che giunge nel sonno dove il punto vuole. e poi ancora. al risveglio. dal sogno ricadendo. s’immola al suo fondo. dove tutto muore.

piccola è ogni cosa e spaventosa. anche queste labbra rosse che dicono forte. carne che piace e sulla bocca gonfia. i denti il seno il senso del perdono. il morso che altrimenti ci divora.

c’è nel dire un lato postumo. selvatico di doni. scavo impietoso che instilla seme nel seme e ancora seme. fino a raggiungere il centro del niente. fino all’inesistente.

 

Germinata

Se avessi potuto regalarti

un paio d’ali una bocca un parto

come Atena dal cranio secondata

dea ti avrei fatto

se avessi potuto una pistola

una rosa un’arma da scagliare.

Se non altro adesso fiorisce

il tuo straziante fiato.

Voce potente

Voce violenta

Voce germinata

Voce minuscola voce

di salvezza voce maestra

coltello eterno

negli occhi della piaga.

Un io in frantumi

testata

Quale futuro per la nostra identità?
Giorgio Fontana

Un io in frantumi

David Hume, trecento anni fa, proponeva di ridurre l’io a un fascio di sensazioni. Non c’è un’unità di fondo, l’anima è un concetto superfluo, tutto ciò che resta è quanto percepito.
Un’immagine che sembra particolarmente azzeccata per descrivere la giornata di un giornalista, di uno studente e anche di un impiegato dei nostri giorni: praticamente di chiunque.
Mentre scrivo quest’articolo, faccio refresh sulla pagina di Facebook e sul mio account di posta elettronica ogni due minuti. Mi fermo, mi rendo conto di essere al limite della dipendenza, o forse di averlo già superato. Ma chi non lo fa?
In un articolo uscito su "il manifesto" il 18 giugno scorso, Marco Mancassola analizza con cura diversi aspetti della questione. In particolare si sofferma sulla CPA — la Continuous Partial Attention di cui parla Linda Stone, ex manager di Apple. continua a leggere

Eterna presenza

tratto da qui

18 giugno 2010

IN FUGA DALLA RETE. Gli ambigui vantaggi dell’eterna presenza

[un mio articolo comparso su Il Manifesto del 18 giugno 2010]

“C’è da dubitare che uno scrittore con una connessione internet al suo posto di lavoro stia scrivendo un buon libro.” Quando poche settimane fa il quotidiano The Guardian chiese ad alcuni scrittori di fama internazionale di compilare un decalogo con i loro consigli di scrittura, il romanziere americano Jonathan Franzen inserì nel suo decalogo questa norma a difesa della concentrazione. Qualunque scrittore sa quanto sia strategica la battaglia per la concentrazione e in questa battaglia, semplicemente, la rete sta dalla parte del nemico. La rete è informazione, certo, possibilità di eseguire in breve tempo ricerche, di recuperare dati o anche solo di consultare un dizionario online. Ma la rete è soprattutto distrazione. Finestre di chat che sbocciano sullo schermo come fiori di una pianta carnivora, raffiche di email che interrompono il lavoro. Un problema che non solo gli scrittori conoscono bene.
continua a leggere

Stato maestro

ho visto il declinare. d’albero maestro. uno dopo l’altro disseccarsi. eppure farsi esempio è faro. scelta. guado. tutto convergendo. luce sull’abisso. ulcera nel petto. rosa maestosa che (s)fiorisce

c’è matassa nel bandolo. dove si fa nudo il nocciolo. né guru né santone, non sciamano né umano. un semidio maestro. emerge dalle onde. zufolando debolezze.

nel suono mortale del silenzio un’armonia di sillabe. d’organo a perpetuarne il senso. slancio svettante oltre i capezzoli. il suo contare fragile il risveglio. la leggerezza piumata dei pulcini.

come un arco che si tende. curva in punta e freccia. vibra quando scocca e sfonda. il lato oscuro del bersaglio. la faccia nascosta dell’arciere

Spiragli

Per troppi mari navigati

i poeti stanno

come polene sulle navi

a scrutare l’orizzonte

se mai qualcuno arrivi

che rechi in bocca

spiragli alla speranza

Due stanze

La stanza del suicida
(di Wyslawa Szymborska)

Certo pensate che la stanza fosse vuota.
E invece c’erano tre sedie con robusti schienali.
Una lampada buona contro il buio.
Una scrivania con sopra un portafoglio, giornali.
Un Buddha sereno, un Cristo afflitto.
Sette elefanti portafortuna, nel cassetto un’agenda.
Pensate che non ci fossero i nostri indirizzi?

Pensate che mancassero libri, quadri, dischi?
E invece c’era una trombetta consolatrice in mani nere.
Saskia e il suo cordiale piccolo fiore.
La gioia scintilla degli dei.
Ulisse sul ripiano si ristora dormendo
dopo le fatiche del quinto canto.
I moralisti,
nomi scritti a lettere d’oro
sui dorsi ben conciati.
Lì accanto i politici stavano ben ritti.

E quella stanza
non sembrava priva di vie d’uscita, magari la porta,
né senza prospettive, magari la finestra.
Gli occhiali da vista erano sul davanzale.
Una mosca ronzava, ossia era ancora viva.

Pensate che almeno la lettera spiegasse qualcosa.
E se vi dico che non c’erano lettere
e noi gli amici -tanti – ci ha tutti contenuti
la busta vuota appoggiata a un bicchiere.

Lente da francobollo
(di Erri De Luca)

Nessuno di noi è passato sulla faccia della terra senza il pensiero di buttarsi via, una volta almeno. Davanti a un parapetto alcuni lo hanno scavalcato. A chi si accosterà di nuovo al bordo, lascio una proposta, una piccola tecnica per convincersi meglio, a proseguire o a tirarsi indietro.

Prendi una lente d’ingrandimento, una da francobolli.
Scrutati la pelle, i peli diventati aghi di pino,
soffiaci sopra, tu sei il vento e il suolo, sono tuoi, ma pure di se stessi.
La ferita di ieri si è rimarginata, un rammendo rosa
di notte ha sigillato la sortita del sangue.
Poi guardati il piede, il tendine specialista di equilibrio,
di cammino, in salita più bravo del cavallo.
Dove frughi, trovi un dettaglio che brulica di mosse proprie e indipendenti.
Non sei il loro signore, tu sei il campo.
Non sei il padrone, ma l’ultimo inquilino.
Fatti prestare lo stetoscopio, appoggiatelo addosso,
meglio che dentro la conchiglia senti il mare chiuso,
le valvole del cuore sono branchie di pesce,
senti il tuffo dell’aria nel sacco dei polmoni,
l’ossigeno che s’incatena al sangue.
Lo saprà fare ben il corpo, di morire,
non ti devi commuovere per questo,
però ti devi accorgere in margine a te stesso,
di una crosta terrestre ai margini del mondo.
I pori sono stelle e pozzi, la pelle è nebulosa e prateria,
l’unghia è un deserto, la ruga è il gran canyon,
l’ombelico è un vulcano e tu sei una geografia.
Di qua o di là dal parapetto: il salto sarà più grande ora.
Così stanno le cose e noi siamo più piccoli di loro.

Quanto amore?

tratto da qui

Le muse sono nubili?

di Roberta Borsani

Le Muse sono tutte nubili. Nessuna di loro ha famiglia. Arte e affetti domestici vivono un difficile rapporto, fatto più di opposizione che di partecipazione. Questo è quello che generalmente si dice. Infatti cresce il numero di individui che, per potersi dedicare interamente all’arte, non mette al mondo figli, non si lega, perfino si separa. Per potersi meglio dedicare alla poesia, alla pittura, alla scrittura…Allora, si conclude, è in aumento il numero degli artisti, e cresce la qualità delle opere?
No, affatto.
Perciò c’è qualcosa che non torna e il rapimento di chi si dice risucchiato dal proprio delirio creativo risulta, di fatto, sterile. Senza cuore, senza nerbo, senza sangue. Era necessaria tanta solitudine dell’anima, tanta rinuncia, per produrre un risultato tanto scialbo? continua a leggere

Giocando con asce di Paul Celan

Mit Äxten spielend

 

Sieben Stunden der Nacht, sieben Jahre des Wachens:
mit Äxten spielend,
liegst du im Schatten aufgerichteter Leichen
– o Bäume, die du nicht fällst! –,
zu Häupten den Prunk des Verschwiegnen,
den Bettel der Worte zu Füßen,
liegst du und spielst mit den Äxten –
und endlich blinkst du wie sie.

Giocando con asce

Sette ore di notte, sette anni di veglia:

giocando con asce

tu giaci all’ombra di cadaveri eretti

– Oh alberi che tu non abbatti! –

hai in testa lo sfarzo del voluto silenzio,

ai piedi il ciarpame delle parole

e giaci così e giochi con asce

finché tu al pari di queste scintilli.

 


Paul Celan, poeta, Cernauti 1920, Parigi 1970 

Madre materna

Oh madre generativa

feconda potente distruttiva

madre felice infelice seppellita

madre esiliata bandita negata

del deserto madre rugiada

madre ferita furente feroce

madre mattanza

madre in catene di cane impazzita

perduta scavata violata

madre allungata

sul letto di spine piantata

madre materna

di porcellana madre vermiglia

fiorita farfalla vaniglia

madre di madre

madre materna madre

di luce infinita.

Stati misti

ho graffi dappertutto. nella pagina inferiore delle braccia. sul dorso delle mani. sul ventre convesso, come un dosso artificiale, sul quale campeggia una manciata di nei piccoli e sbiaditi. presumono d’essere disposti secondo una volontà divina. Quasi costellazioni celesti.

***

stasera rantolo stanchezza. nessun enzima da consegnare. né segno o sindone. nessuna escrescenza di salnitro da scrostare.

***

tutto tace. non parla il mostro dentro. non il santo non il vate. tutto tace. non fiorisce una rosa o la parola. né l’anima la segue. e il rumore che c’è intorno è meno di un sussurro. uno sbadiglio.

***

penso a quei dintorni stanchi. all’imbrunire. di strade macchine palazzi. al respiro che respira grigio. quando ogni cosa tace o grida o invecchia. e nell’imbuto rabbocca a litri l’abbandono.

***

penso al sonno. un tuffo nero verticale. dentro al nulla l’infusione. penso al dopo. un risveglio improbabile. domani inanellando tutti i gesti del giorno in successione.

 

Loredana Semantica – Un lavoro da killer ben fatto

Immensamente grazie a FemminArt per questo.

Loredana Semantica è soprattutto musicalità del verso prima ancora che intrigo di parole e figurazioni, semantica appunto. E’ gorgheggio di un’ipotesi antica, che si specchia nella natura e nella sua cadenza e che fluisce nel nome della sacralità del respiro, “Tutto è benedetto, nel silenzio esatto, dei miei sguardi..”. Come pure nelle sue foto, poesie visive, mute, si accavallano fotogrammi d’incanto che insistono in una sequenza quasi volessero scomporre il lampo visivo e attrarre l’attenzione sulla magia del vivere. “Vorrei dire una rosa, a volte..”. Dire una rosa.

Eppure la poesia di Loredana viene definita di “resistenza”, intesa come lotta strenua di contrapposizione, empito che ogni poesia dovrebbe avere, sempre, ma certo, a volte la contemplazione prende il sopravvento, da sembrare una fuga nell’empireo della perfezione inesistente. Loredana si autoelide da questo rischio, “appena nate, le poesie sono già vecchie..”, la tentazione d’estasi è subito fugata per “un brivido di schianto, il tetano che avanza..”. E’ impossibile per il poeta, far finta di niente. “Ombre ho nel sangue.. aggrediscono l’orecchio.. topi in tana corde lise.. segatura del pensiero, sbriciolato tra le spire..”. E’ il momento in cui il poeta si immola, nasconde il suo pensiero nella discrasia di una patologia propria, personale, per lasciare il grido al suo urlo, senza far sì che il mondo si neghi alla bellezza.

“E noi scrivevamo poesie..”, mentre la bestia latrava, “..passava col mitra, di striscio addossando la canna, la pistola alla nuca e sparando”. Silenzio, non può che esservi silenzio, contrito, di fronte allo stupore, dell’infranto iato, sperato fino all’ultimo, fra l’appoggiar la canna, e fare fuoco. “..a miliardi di lapidi e di croci, di dolori perfetti ripetuti..”. Il compito del poeta è di una essenzialità portante per l’universo stesso, e non ci si riferisce certo alla tiratura, ma alla capacità del dire, all’enorme responsabilità del dire, la bellezza come la stanchezza, “..al mistero dei petali in corolla..”, regale sinfonia, e la perfetta inutilità delle “..sgolate di civile impegno..”, ma in sordina, perché tutto sembri un “..colore, carnoso di velluto da baciare..”. “Un incanto più che un fiore”.

Loredana è un poeta.

Discorso sulla poesia. Un'apologia della parola

di Luigi B.

tratto da qui

« Nobil natura[…]/Madre è di parto e di voler matrigna.»

(La Ginestra, Giacomo Leopardi)

L’ho già detto – e molti prima di me, ne sono sicuro: la ragione estinguerà l’uomo.

Il mondo tornerà ad esser di nessuno, e le rocce approfitteranno del silenzio primordiale per dar voce al loro canto sotto l’ombra colorata dei loro stessi quarzi; e le bestie danzeranno sopra campi d’orecchie piene di terra e di antico cerume; lo scricchiolar di ossa e il cinguettar dei chiurli riempiranno le giornate azzurre e il cemento scoppierà all’incedere delle edere.

Ma lungo è il tempo che ancora attende l’uomo e la sua paziente disfatta, poiché il cinismo è la vendetta di ciò che passa, e l’agonia l’unico luogo che resta al rimanere.continua a leggere

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