La luce di Dio

“Buono ed onesto è chi non copre col suo io la luce di Dio.” Papa Benedetto XVI

Oggi 30 settembre 2009, stimolata da un inaspettato commento di cecilia2day, intervengo sul punto a chiarire che a prescindere da tutte le possibili sottigliezze, o prese di posizione in tema di fede, religione, negazione (o no) del metafisico, negazione (o affermazione) dell’esistenza di Dio, negazione (o non negazione) dell’esistenza dell’anima e degli angeli e dei santi e del paradiso e quant’altro Voi vogliate disquisire qui, in questa sala da the o nella vostra vita, trovo nella citazione riportata, un bellissimo spunto di riflessione, innanzitutto intima (intendendo con ciò proprio per me), su quanto la coltivazione e l’affermazione del proprio io impedisca la maturazione della propria umanità, e in generale di riflessione su quanto il marasma pullulante di ipertrofici io proiettati nel mondo impediscano un movimento condiviso di altruismo e di bontà. Nella parola io della citazione e secondo il contesto della frase, ravviso il richiamo a esasperazioni di quella tendenza tutta umana che è promuovere se stessi e i propri interessi, esasperazione spinta fino al punto di travalicare la correttezza dei rapporti, fino al punto di perseguire il successo a qualunque prezzo, fino al punto di sacrificare il bene e la propria (e altrui) onestà. Atteggiamenti che oggi (ma in fondo anche ieri), anche grazie agli esempi di sfrontatezza, sfruttamento, arroganza considerati come modelli da seguire (invidiare) alimentano un processo ingravescente di abbrutimento dei rapporti umani, di non accettazione della nostra finitezza (accettazione di cui sono corollario di contro la modestia e l’umiltà), un processo di negazione della capacità di rispettare, comprendere, tollerare, aiutare e in definitiva amare il prossimo.

Oscillando

Senza che io

                   ti riconosca

né che tu

                   mi riconosca

che se tu riconoscessi

o se io riconoscessi

o colmassi la distanza

dal nulla ch’è nel mondo

dal bene ch’è nel mondo

dal male innominabile

dal cielo

che se  fosse grazia il nulla

l’aria muta del trapezio

calma e ferma l’aria

che se fosse  salto il volo

l’immutabilità del moto

se volassimo violentemente

in parabola e respiro

ali sull’abisso fossimo

slancio delle membra

la caduta l’alto i corpi

il vuoto fossimo

lo schianto.

.

per eco da qui

“La cipolla” di Wislava Szymborska

La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
Potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.

In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non viscere ritorti.
Lei piú e piú volte nuda
fin nel fondo e cosí via.

Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.

La cipolla, d’accordo:
il piú bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata
l’idiozia della perfezione.

Wislava Szymborska, petessa, nata a Bnic (Kornic) in Polonia nel 1923, premio Nobel nel 1996

Bombardamenti

Bombardamenti tra meningi

atomi che scoppiano nel vuoto

come satelliti o pianeti

minuscoli pulviscoli dispersi

che flusso diventano ad un tratto

rapido pungente e improvviso

penetrante a bucare il labirinto

perforando il timpano e l’udito

stupefatto algido nascente

alto purissimo ed esatto

come se mai in precedenza

fosse mai stato detto

così meravigliosamente nuovo

da qualunque bocca emesso

in quel preciso modo

e tutto mio diventa

unico e perfetto

esposto espresso pronunziato

immenso possente oracolare

plasma supino tra le mani

pasta vivissima per modellare

forma per bocca secondante

armata disarmata abbandonata

dolce freddissima gelata

piuma sofficissima di neve

barocca disadorna barricata

marmo venato di divino

gancio di ferro ad uncinare

di lunghissimi arpioni tutti i rami  

ruggine gridando alle radici

tenerissima cosa sussurrando

al nucleo mondo di ogni male.

C’era una volta la libertà d’informazione in rete

 
Roma – Il 14 settembre scorso è stato assegnato alla Commissione Giustizia della Camera un disegno di legge a firma degli Onorevoli Pecorella e Costa attraverso il quale si manifesta l’intenzione di rendere integralmente applicabile a tutti i "siti internet aventi natura editoriale" l’attuale disciplina sulla stampa.

Sono bastati 101 caratteri, spazi inclusi, all’On. Pecorella per surclassare il Ministro Alfano che, prima dell’estate, aveva inserito nel DDL intercettazioni una disposizione volta ad estendere a tutti i "siti informatici" l’obbligo di rettifica previsto nella vecchia legge sulla stampa e salire, così, sulla cima più alta dell’Olimpo dei parlamentari italiani che minacciano – per scarsa conoscenza del fenomeno o tecnofobia – la libertà di comunicazione delle informazioni ed opinioni così come sancita all’art. 11 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino e all’art. 21 della Costituzione. Con una previsione di straordinaria sintesi e, ad un tempo, destinata – se approvata – a modificare, per sempre, il livello di libertà di informazione in Rete, infatti, l’On. Pecorella intende aggiungere un comma all’art. 1 della Legge sulla stampa – la legge n. 47 dell’8 febbraio 1948, scritta dalla stessa Assemblea Costituente – attraverso il quale prevedere che l’intera disciplina sulla stampa debba trovare applicazione anche "ai siti internet aventi natura editoriale". continua a leggere

Dal web scritti scelti di riflessione 7: perchè i poeti sono poveri?

tratto da qui

Perché i poeti sono poveri?

Vi siete mai chiesti perché i poeti sono poveri? Almeno quelli veri…

Mia moglie non butta mai niente, figuriamo i testi scolastici. Un giorno in un armadio polveroso, mettendo a posto, è spuntato un tomo giallognolo senza copertina. All’interno, di traverso, c’era appuntato nome e cognome di mia moglie, nonchè la classe frequentata (3°E) . Un volume bello vissuto di 1241 pagine. Sfogliando inciampo su un intenso pezzo a pag 795, sempre attualissimo nonostante abbia quarant’anni. Un articolo scritto da Domenico Porzio, ripreso dalla rivista Epoca XXI, 1970, dal titolo: perché i poeti sono poveri? (risposta alla domanda di un ragazzo fatta al giornalista).
Vi invito alla lettura, a riflettere, a pensare perché in Italia le cose non cambiano mai.
 
“Io da ragazzo stavo in una strada dove abitava un poeta povero. Viale Mugello, prima della guerra, era ancora periferia di Milano: un viale largo, spartito in tre vie da due aiole d’erba gracile e da due file di platani; un viale breve, con una scuola gialla e poche case, mozzato ai lati dai un binario della ferrovia. continua a leggere

Il Campiello a Margaret Mazzantini

Corriere della Sera.it
VENEZIA – Il premio Campiello 2009 va al romanzo di Margaret Mazzantini «Venuto al mondo», edito da Mondadori. La vincitrice della 47esima edizione del premio letterario ha staccato sin dall’inizio tutti gli altri diventando, col procedere dello spoglio, praticamente irraggiungibile. In favore del romanzo ambientato a Sarajevo, nell’anno delle olimpiadi invernali, si sono espressi 129 voti Leggi ancora

Lo strappo nel cielo

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Lo Strappo nel Cielo from Stefano Meazza on Vimeo.

tratto da qui

La crisi, quindi: condizione di lucidità terribile, che mostra il mondo nella sua nudità e mutezza. Lo “strappo nel cielo di carta” è l’immagine che Pirandello (1904) usa per definire la condizione di Amleto[5]. Egli non si strugge per ciò che avviene nel suo mondo – la morte del padre, il tradimento della madre, l’amore per Ofelia -, bensì s’interroga sulla consistenza stessa di quel mondo. Amleto coglie l’inconsistenza della realtà. L’evento luttuoso ha in ciò soltanto il compito di fare alzare lo sguardo dell’uomo verso quella zona morta della visione, quel buco narrativo nel tessuto dell’essere: pone fine al divertissement, infinita parata di simulazioni che coprono la vistosa fessura. Lo strappo, evento meta-teatrale per un burattino, diventa meta-fisico per l’umano. La medesima immagine evoca Zweig per Tolstòj: “Vi è ora nella sua anima uno strappo, una fessura stretta e nera che l’occhio sconvolto fissa suo malgrado, nel vuoto di questa presenza estranea, fredda, scura, inafferrabile, dietro la nostra vita, calda e gonfia di sangue – l’eterno niente dietro l’effimero.” leggi tutto

Incantesimo

Quando è davanti il bianco

bianco dev’essere l’intero quanto

senza nero di scritta o segni o colori

ché l’occhio dannato vi anneghi

d’ ingorghi e angoscia muta.

Vanità sia nel tronco mozzato

precipizio a raccolta del nulla

il respiro vi spazi perduto

paralisi che in voce si forma

sul dorso flesso si (s)pieghi

d’impeto che gonfio s’alzi

immenso di lievito assiso

vento nel  vertice alto

altissimo trono del mondo.

E la punta che riga lo strazi

e il tasto che batte lo sporchi

di sangue di sabbia di chiodo

di calce di brina di fango

di polline pelle sudore

briciole zucchero

sporche parole.

Flebo verso

C’è stanchezza nel battito

del polso un fiato lento

al passo condannato

geme scuce taglia

l’abisso laterale sulla coscia

la ferita aperta lunga e rossa

i margini smerlati di cotone

sangue e grumi a gocce

un deflusso che si perde

nel giorno appena nato

un’altra volta nato

un’altra volta appena

andato.

Il segreto

tratto da qui

Il segreto

di Marco Belpoliti

“Il segreto sta nel nucleo più interno del potere”, scrive Elias Canetti in Massa e potere. I detentori del potere cercano sempre di vedere a fondo, di scandagliare le intenzioni altrui, senza tuttavia mai lasciare intravedere le proprie. Il segreto è la fonte stessa del potere: c’è chi sa e chi invece ignora. Il potente cerca di conoscere i segreti degli altri, li persegue, li ascolta, li registra, li scheda. Questo è il “segreto offensivo”, contrapposto al “segreto difensivo”, che consiste nel semplice atto di non far conoscere i propri segreti agli altri. Il potente esercita entrambi, mentre gli uomini comuni hanno a disposizione solo quello difensivo o passivo.
Oggi nella società della comunicazione i segreti non sembrano esistere più: tutto è esposto, tutto è visibile, tutto è ascoltabile. Da Facebook a You Tube ogni cosa – sentimenti, antipatie, simpatie, amicizie, frequentazioni, immagini di sé e dei propri cari, viaggi, preferenze, passioni, trasgressioni – è messa continuamente in mostra in una società fondata sulla trasparenza. Non c’è privacy che non possa essere violata, dal conto bancario all’e-mail, dalla scheda sanitaria alla bolletta elettrica. Una società di guardoni e superguardoni, in cui noi tutti finiamo inevitabilmente per essere gli scrutatori degli altri, in cui tutti guardano tutti, e subito registrano. L’unica cosa che sembra far paura è l’anonimato: essere “qualcuno” è una necessità sociale primaria. continua a leggere

Il sonno dei Siciliani

“Il sonno caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagagliaio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto.”

Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse: “Ma non le sembra di esagerare un po’, principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni.”

Il Principe si seccò: “Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le pioggie, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo.”

da “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa 

La notte è nel regno

La notte è nel regno. Silenzio. Un petto di pollo tra i denti a colmare. L’ansia atomica al collo. Masticare. Se non altro sapore. Tre poesie sotto gli occhi. Scelte aliene non rendono luce. La lepre il leone. Un ruggito di fiera. Certe femmine lì sopra a ronzare. La paura è l’inganno e ti trema la voce. Slitti esule sull’asse migliore. Eppure. Non è dalla bocca che ha peso la voce, ma certo dal nome. Tutto ha un guscio diverso dal bianco. Riconosco il vibrare del canto. L’aria alpina mi pare. Non avendo  possesso è lo stesso tacere. Senza traccia il commento non vale. Senza quello non perdo. Pezzi e unghie che nessuno raccoglie. Conservare lo scempio per dare. Altre allodole al fiato. Un’ancora al cielo, un pensiero, un sogno mai andato. Fiondare risposte sui polsi. Penetrando dei vasi il percorso. Tra i globuli e il cuore. Ritmare l’ ossesso, la svolta, il deserto. I pini sognati. Rimane un albero in fondo. Anche l’erba del prato. Un filo appena ne vorrei nella bocca, un filo di verde salato. Sputando a mia volta veleni. Vituperando il lavoro. Di tanti e scrittori. Dio solo sa il sacrificio, l’impegno, il lavoro. A dirlo noioso l’ indegno cibario e condanne a palate. Da quale luogo arrivano sillabe? Quale mercante vantare?  Osservare le ossa. Come nacchere ne sento lo sbattere. Tat tariri ta ta. Verso lento a scansione talento. Una musica resa interiore. Un ritmo a sillabe interno che suono ancor prima del verbo. Un passo veloce, due tratti di morse, tre punti, tre linee, lo stacco del tempo. L’accento nel posto migliore. Che sia un trattato di lame? Tat tarariri ta ta. Tagliuzzare. Riprendere sassi e parole. Pulire pareti a riflesso. Lucidare a grasso graffiti. Megagrammi e bellezza. La saggezza cinese. Tat tarariri ta ta. Endecasillabo monco per arte d’accetta. Lo scarto tra l’atomo e l’oltre tra le mani impastate ridotto.

 

Gortoz a run

GORTOZ A RUN

Gortozet ‘m eus, gortozet pell
E skeud teñval an tourioù gell
E skeud teñval an tourioù gell

E skeud teñval an tourioù glav
C’hwi am gwelo c’hortoz atav
C’hwi am gwelo c’hortoz atav

Un deiz a vo ‘teuio en-dro
Dreist ar morioù, dreist ar maezioù
Dreist ar maezioù, dreist ar morioù

D’am laerezh war an treujoù
‘Teuio en-dro karget a fru
E skeud teñval an tourioù du

‘Teuio en-dro an avel c’hlas
Da analañ va c’halon c’hloaz’t

Kaset e vin diouzh e anal
Pell gant ar red en ur vro all

Kaset e vin diouzh e alan
Pell gant ar red, hervez ‘deus c’hoant

Hervez ‘deus c’hoant pell eus ar bed
Etre ar mor hag ar stered.

ASPETTAVO

Aspettavo, aspettavo da tanto tempo
nell’ombra scura delle torri grigie
nell’ombra scura delle torri grigie

Nell’ombra scura delle torri di pioggia
mi vedrai aspettare per sempre
mi vedrai aspettare per sempre

Un giorno tornerà
sulle terre, sui mari
sulle terre, sui mari

A portarmi sui sentieri
tornerà carico di spruzzi di mare
nell’ombra scura delle torri nere

Tornerà il vento azzurro
e porterà con sé il mio cuore ferito

Sarò spinto via dal suo respiro
lontano nella corrente, in un altro paese

Sarò spinto via dal suo respiro
lontano nella corrente, ovunque voglia

Ovunque voglia, lontano da questo mondo
tra il mare e le stelle.

Testo e musica di Denez Prigent, traduzione da qui 

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