Canto l’estirpamento
Canto l’estirpamento tutto
a respirare brace
i fiati disgustosi addossati
l’uno all’altro
stretti ai fianchi
e nel torace ampio i cerchi
come anelli in ferro alla catena
morsa dei polmoni soffocati
fiori sfatti appassiti
mai sbocciati
fiori sfioriti
fiori inerti nel petto
gli aeroplani.
Dal web: scritti scelti di riflessione 2
http://www.nazioneindiana.com/2009/05/27/senza-vergogna/
Senza vergogna
di Marco Belpoliti
La vergogna non c’è più. Quel sentimento che ci suggeriva di provare un turbamento, oppure un senso d’indegnità di fronte alle conseguenze di una nostra frase o azione, che c’induceva a chinare il capo, abbassare gli occhi, evitare lo sguardo dell’altro, di farci piccoli e timorosi, sembra scomparso.
Ho in mente un passo della Tregua di Primo Levi, proprio all’inizio del libro, dove i giovani soldati russi arrivano in vista del Lager, e dall’alto dei loro cavalli osservano lo spettacolo che si offre ai loro sguardi di vincitori: “Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota”.
Levi spiega che la vergogna è il sentimento che lui e i suoi compagni provano dopo le selezioni, oppure ogni volta che assistono ad un oltraggio: la vergogna sentita dal giusto “davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”.
Da qualche tempo mi domando perché si sia perduto questo sentimento così forte, essenziale, e insieme terribile, come mai abbiamo perso questo guardiano o, come dicono gli psicologi, questo strumento essenziale per la salvaguardia di sé. Oggi la vergogna, ma anche il pudore, non costituisce più un freno al trionfo dell’esibizionismo, al voyeurismo, sia tra la gente comune come nelle classi dirigenti. La perdita di valore della vergogna corrisponde alla idealizzazione del banale e dell’insignificante. Lo sguardo ammirato di molti si rivolge non più a persone di rilievo morale o intellettuale, bensì a uomini e donne modesti, anonimi, assolutamente identici all’uomo della strada o alla donna della porta accanto. continua a leggere
Congiuntiva
Sogno da tre notti
d’essere speranza
in vertebre di molti forse
congiuntiva
se poesia è l’azzurro che si fonde
se per me è sentire un lieve
sussulto alla parola
fresco che nel petto scende
incomprensibile all’u dirsi
gioia calma al dire
l’ho vista prima io
il perenne che riempie il pieno
del momento esatto ed inatteso
scoprire il posto vuoto accanto
ciechi gli occhi sempre
appresso ai polsi
seguiti dalle mani e attorno
bianche strisce coi bottoni
a segnare gesti innamorati
d’eleganza
Penso a come dire questa fragilità di Mario Benedetti
http://rebstein.wordpress.com/2009/02/17/umana-gloria/
A D.
Penso a come dire questa fragilità che è guardarti,
stare insieme a cose come bottoni o spille,
come le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone.
Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze
dove ci fermiamo davanti a noi un momento
con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso,
dopo la paura in ogni mano, o braccio, passo,
che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano.
Mario Benedetti, poeta, nasce a Udine nel 1955 e vive a Milano
Omaggio a Mario Orlando Benedetti
Mario Benedetti (Mario Orlando Hamlet Hardy Brenno Benedetti Farugia) scrittore uruguaiano nato a Paso de los Toros il 14 settembre 1920, morto a Montevideo il 17 maggio 2009
Rosa d’antan
Vorrei dire una rosa
a volte
le foglie dai margini smerlati
che si arrampicano su in cima
disposte a coppie e a gruppi
girando da ogni lato
tutt’intorno al gambo
ardito e rivolto verso l’alto
quelle che approssimandosi man mano
al mistero dei petali in corolla
(i primi aperti e gli altri stretti
a formare semichiusi il boccio)
si fanno più piccole e discrete
più tenere di lucido e di verde.
Vorrei dire la bellezza
ch’è regale nel pieno del vigore
cosparsa di rugiada a bollicine
che rifrangono in migliaia
per tensione in superficie
la luce e il suo colore
carnoso di velluto da baciare
ed insieme il cielo che si specchia
nel tremore del cosmo infinitesimo.
Un incanto più che un fiore.
Dal web – Scritti scelti di letteratura 2
http://wunderkammern.wordpress.com/2008/05/23/piacere-sono-un-poeta/
Piacere, sono un poeta
[da Poesia, settembre 1997 – Alessandro Carrera]
Chiunque, per fortuna o per disgrazia, abbia spesso a che fare con i molti che scrivono versi, si imbatte di frequente in persone che non hanno la minima reticenza a definirsi poeti. Buonasera, lo sa che anch’io sono un poeta; visto che siamo fra poeti, vediamoci a cena così stiamo un po’ fra poeti, mi definisco un poeta sperimentale, sono un poeta che non appartiene a nessuna scuola, e così via autopoetandosi. C’è qualcosa di sbagliato in questo candore? Il bon ton poetico suggerirebbe di essere meno assertivi? Perché nell’affermazione “io sono un poeta” si insinua spesso una nota stonata che non si avverte in chi dice di essere musicista, pittore o regista? Parecchi poeti, anche tra quelli ampiamente riconosciuti, preferiscono evitare di definirsi tali. Eludono l’autoinvestitura con un pudore a volte sincero a volte affettato, ma questa loro reticenza ribadisce che la definizione di poeta va trattata con cautela. Nel suo discorso di accettazione del Premio Nobel, Wislawa Szymborska ha osservato che, tra tutti i poeti da lei conosciuti, soltanto Josif Brodskij non aveva nessun imbarazzo a dire di se stesso: “Io sono un poeta”, e non l’aveva avuto neanche in circostanze in cui quell’affermazione gli era costata cara. Quando un tribunale sovietico, che lo accusava di attività antipatriottiche, gli chiese quale fosse la sua professione, Brodskij rispose appunto di essere un poeta. Il giudice gli domandò chi o che cosa gli dava l’autorità di definirsi tale. Brodskij rispose che l’autorità se l’era data da solo, e il giudice lo condannò come “parassita della società”. continua a leggere
Fuga profonda
Un’ erinni che si danna
una fuga senza fine
è la bocca grande cagna
destinata allo spalanco
che si fa buco nel vuoto
e più ancora in gola s’apre
nell’impasto eroso nero.
Foro che nel corpo esplode
luoghi immondi e schiuma
muco
sopra e sotto gli occhi
ciechi
che sul collo scuote il capo
ondeggiando ottundimento
dal sinistro all’altro lato
irto agita le penne
sordo si ribella al pelo
per rivolta batte in testa
senza rotta impazza scosso
rotto d’anima e dolore
scaglia
senza tregua né ragione.
Muore.