Soffiano le vostre lingue
sibilanti dentro gli otri
vogliose di foglie da staccare
ai rami alti dell’albero dei frutti
profanare la sagoma del corpo
per spossessamento dell’involto
mal di vuoto che spalanca dentro
spandendo avverbi e congiuntivi.
Non ci sono più vene nel cervello
né vanesio desiderio d’apparire
di mostrare la lingua umida a leccare
scenari vellutati e piedistalli
non il fianco da prestare
a cataloghi etichette
né targhette da incollare sulla fronte
nel registro del dominio societario
per pretesa ributtante di controllo.
E se pure avesse luce un giorno
l’atteso tempo dell’epifania
(ecce formica mondo) nel sogno
ben poco avrebbe vita oltre le scarpe
forse soltanto l’enormità del pianto
che al palato affiora dissanguando
il cuneo che s’incastra lento
a scardinare la poesia e la bocca
aperta esattamente al centro
della breccia dilatata dello scempio.
Direi che sono scorie le parole
per anelito d’eternità sconfitto
in pasto all’iperego dell’autore
nudo verme in terra sillabante
che non bastano tre dita
lanciate verso il sole a velarne il viso
a ricoprire il solco della carne.